Da Proust a Tolstoj (nella foto, il film tratto da “Anna Karenina”), passando per Dante e Gogol’, fino a un romanzo di oggi, La sarta di Dachau. In molta grande letteratura, abiti, gioielli e accessori hanno svolto un ruolo importante. Ecco alcuni esempi d’autore

Non c’è letteratura senza sentimento, senza amore, passione e tormento. Di questi si nutrono i personaggi più famosi di tanti capolavori della letteratura. Soprattutto di quella classica. E, ça va sans dire, non c’è donna senza abito che ne esprima la personalità. Senza questi abiti, gioielli, accessori i personaggi non sarebbero gli stessi. E ci aiutano a capirli meglio. Come a dire: l’abito fa il monaco. Eccome. Ecco alcuni esempi di ieri e, alla fine, uno di oggi.

L’abito della seduzione

Marcel Proust, Un amore di Swann

La demi-mondaine Odette attira l’amante Swann con la sapiente disposizione di un fiore di cattleya alla scollatura del vestito: «Lei aveva in mano un mazzo di cattleya, e Swann vide che sotto la sciarpa di trina aveva nei capelli fiori di quella stessa orchidea puntati a quell’aigrette di piume di cigno. Sotto la mantiglia la vestiva una cascata di velluto nero che, preso su di sbieco, scopriva in un largo triangolo il fondo d’una gonna di seta bianca e lasciava vedere un davantino, pure di seta bianca, all’apertura del busto scollato ove erano infilate altre cattleya».

L’abito della passione

Lev Tolstoj, Anna Karenina

Anna mostra il suo rifiuto per le convenzioni sociali che la vorrebbero moglie rinunciataria e sottomessa, sovvertendo completamente usi e costumi della buona borghesia russa dell’Ottocento. Al ballo «Anna non era in lilla, come assolutamente voleva Kitty, ma indossava un abito nero di velluto, con la scollatura bassa, che scopriva le sue spalle piene e tornite, come d’avorio antico, e il seno e le braccia rotonde dal minuscolo polso sottile. Tutto l’abito era ornato di merletto veneziano. In testa, sui capelli neri, tutti suoi, aveva una piccola corona di violette e un’altra eguale sul nastro nero della cintura, fra le trine bianche. La pettinatura non dava nell’occhio. Si notavano soltanto, e l’abbellivano, i corti anelli capricciosi dei capelli ricciuti che sempre le sfuggivano sulla nuca e sulle tempie. Sul forte collo tornito c’era un filo di perle. Kitty vedeva Anna ogni giorno, era innamorata di lei e non riusciva a immaginarsela che in lilla. Ma ora, vedendola in nero, sentì che non ne aveva compreso tutto il fascino. Ora lei le apparve completamente nuova e inaspettata. E capì ora che Anna non poteva essere in lilla e che il suo fascino stava proprio nel fatto che essa non si lasciava dominare dalla sua toilette, che la toilette non poteva mai prendere risalto a spese di lei. Neppure l’abito nero con le lussuose trine risaltava su di lei; era solamente una cornice, e risaltava lei sola, semplice, naturale, elegante, e nel contempo gaia e animata».

Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta

Anche Hester Prynne è costretta a portare, come sfregio di una società che non comprende le sue ragioni, il simbolo, scandaloso di chi ha amato contro le convenzioni:«Quando la giovane donna, la madre della bambina, si trovò ritta davanti alla folla, esposta in tutta la persona, parve che il suo primo impulso fosse di stringersi forte al petto la neonata, non tanto in uno slancio di affetto materno, quanto per nascondere forse in tal modo un certo simbolo, ricamato sulla veste o forse appuntato sopra. Un attimo dopo, tuttavia, giudicando saggiamente che un pegno della sua vergogna sarebbe ben poco servito a nascondere l’altro, appoggiò sul braccio la bambina e, con il volto in fiamme ma con un sorriso altero e uno sguardo fiero che non si sarebbe abbassato, scrutò i concittadini e quanti le stavano vicino. Sul corpetto dell’abito, fatta di una fine stoffa rossa, circondata da un ricamo elaborato e fantastiche volute in filo d’oro, appariva la lettera A. Era eseguita con tanta arte e indicava una fantasia così fertile ed esuberante da sembrare un ultimo tocco ornamentale all’abito, di uno sfarzo in armonia con il gusto dell’epoca, ma ben al di là di quanto non fosse permesso dalle norme suntuarie della colonia».

L’abito dell’amore

Dante, Beatrice e la Divina Commedia

Beatrice compare nel poema per la prima volta nel Canto II dell’Inferno, quando scende nel Limbo e prega Virgilio di soccorrere Dante. È la Vergine a sollecitare l’intevento di santa Lucia per la salvezza del poeta, e Lucia si rivolge a Beatrice (che siede nel suo scranno celeste accanto a Rachele) pregandola di intervenire in soccorso di Dante. Beatrice ricompare poi nel Canto XXX del Purgatorio, al termine della processione simbolica nel Paradiso Terrestre, sul carro che rappresenta la Chiesa trainato dal grifone. Qui Beatrice è coperta da un velo bianco su cui è posta una corona di ulivo, indossa un abito rosso e un mantello verde, colori che simboleggiano le tre virtù teologali (il bianco è la fede, il verde è la speranza, il rosso è la carità). Nell’attimo preciso in cui lei appare scompare Virgilio, il che provoca in Dante un profondo turbamento e un pianto accorato.

L’abito come rovesciamento dell’umana condizione

Nikolaj Gogol’, Il cappotto

Quando Dostoevskij disse l’ormai leggendario «Siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol’» alludeva sicuramente a tutta la letteratura sugli «umiliati e offesi» che aveva preso le mosse dalle vicende di Akakij Akakevič lette in chiave umanitaristica e sentimentale: «Da qualche tempo Akàkij Akakièvič cominciava ad avvertire in modo particolarmente acuto, sulle spalle e sulla schiena, i rigori del gelo, benché si sforzasse di percorrere al più presto e di corsa il tragitto dalla casa all’ufficio. Alla fine si chiese se il suo cappotto non avesse qualche difetto. Dopo averlo accuratamente esaminato, a casa sua, scoprì che in due o tre posti, precisamente sulla schiena e sulle spalle, esso era diventato leggero come un velo: il panno s’era talmente liso che ci si vedeva attraverso e la fodera si sfilacciava. Bisogna sapere che anche il cappotto di Akàkij Akakièvič era oggetto delle derisioni dei colleghi; gli avevano persino negato il nobile nome di cappotto e lo chiamavano vestaglia. In realtà esso aveva una strana caratteristica: ogni anno il suo colletto diventava sempre più piccolo, perché serviva per rattoppare le altre parti. Il rattoppo non rivelava alcun’arte da parte del sarto e l’effetto non era bello: sembrava un sacco cadente. Accertata la situazione, Akàkij Akakièvič decise che bisognava portare il cappotto da Petròvič, il sarto, che abitava al quarto piano di una scala di servizio e, nonostante un occhio storto e la faccia tutta butterata, si occupava con una certa abilità della riparazione d’ogni sorta di pantaloni e di frac impiegatizi; ciò, si capisce, quand’era in stato di sobrietà e non cullava in testa qualche altra impresa.»

La novità in libreria

Mary Chamberlain, La sarta di Dachau

Mary Chamberlain insegna storia a Oxford. Nell’estate del 2014, mentre sfoglia un saggio sulla Seconda Guerra Mondiale, si imbatte nel mistero del vestito da sposa di Eva Braun, l’amante di Hitler, disegnato da una sarta sconosciuta. Da lì nasce l’idea per il suo primo romanzo, La sarta di Dachau, il suo primo romanzo, caso editoriale ancora prima di essere pubblicato, ora arrivato nelle librerie italiane per Garzanti. La trama? Siamo nella Londra del 1939 e Ada Vaughan non ha ancora compiuto diciotto anni quando capisce che basta un sogno per disegnare il proprio destino. E il suo è quello di diventare una sarta famosa, aprire una casa di moda, realizzare abiti per le donne più eleganti della sua città. Un viaggio imprevisto a Parigi le fa toccare con mano i confini del suo sogno: stoffe preziose, tagli raffinati, ricami dorati. Ma Ada rimane intrappolata in Francia a causa della guerra, senza la possibilità di ritornare a casa. Ada non ha colpe ma viene deportata nel campo di concentramento di Dachau dove, per sopravvivere, si aggrappa all’unica cosa che le rimane, il suo sogno. La sua abilità con ago e filo le permette di lavorare per la moglie del comandante del campo e gli abiti prodotti nei lunghi anni di prigionia sono sempre più ricercati, nonostante le ristrettezze belliche. La sua fama travalica le mura di Dachau e arriva fino alle più alte gerarchie naziste: le viene commissionato un abito che dovrà essere il più bello della sua carriera. Ma Ada non sa che quello che le sue mani stanno creando non è un abito qualsiasi: sarà l’abito da sposa di Eva Braun, l’amante del Führer.


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