Sulla scia de “Le avventure di Robinson Crusoe” e “ll giro del mondo in ottanta giorni”, la vicenda raccontata da Esi Edugyan ne “Le avventure di Washington Black” non è solo una storia di avventure e viaggi incredibili, né un romanzo sulla schiavitù. Bensì un libro sull’affermazione dell’identità personale…

In un nome possono essere racchiuse tutte le promesse di un genitore al proprio figlio: gli auspici, le speranze, il desiderio di un futuro migliore. Forse è stato così per molti ma non per George Washington Black, schiavo della piantagione di Faith, Barbados, che quel nome lo ha avuto in dono dal suo primo padrone.

La narrazione ha inizio nel 1830, quando Wash ha undici anni: il suo unico orizzonte è quello dei campi di canna da zucchero, le mani sono rovinate dalla fatica. Il senso di impotenza e disperazione sono così forti che l’unica via di fuga sembra la morte, con la speranza di rinascere altrove:

“Tu li hai mai visti? I Morti che si risvegliano? […] Erano felici?”

“Erano liberi.”

Le avventure di Washington Black Esi Edugyan

Tutto sembra destinato a ripetersi così, all’infinito, anche adesso che la proprietà e tutti i suoi schiavi sono stati venduti al nuovo proprietario, Erasmus Wilde. Qualcosa però rompe questo equilibrio: Wash viene ceduto come valletto al fratello minore di Erasmus, Christopher “Titch” Wilde, uno scienziato bizzarro e naturalista, un uomo che lo porterà con sé alla scoperta delle terre più remote così come alla conquista del cielo, grazie alla sua invenzione, un pallone aerostatico battezzato Nemboveliero.

Sulla scia de Le avventure di Robinson Crusoe e Il giro del mondo in ottanta giorni, la vicenda raccontata da Esi Edugyan ne Le avventure di Washington Black (Neri Pozza, traduzione di Ada Arduini) non è solo una storia di avventure e viaggi incredibili.

Il romanzo è segnato da una lunga linea di sangue: quello che scorre per l’affermazione del potere, per delineare confini, razza e ruoli, quello versato per la sopravvivenza. Dall’altro lato, invece, c’è il sangue che riporta ai legami famigliari, a rimpianti, e che addirittura perde di valore quando l’affetto trascende da esso.

Allo stesso tempo, nonostante il contesto e lo sfondo a volte cruento, non è un romanzo sulla schiavitù, ma piuttosto un romanzo sull’affermazione dell’identità personale. Il vero percorso del protagonista potrebbe iniziare qui, dal dialogo tra Washington Black e Titch:

“Cos’è la neve?” domandai.

“Una cosa che non vedrai mai.” E mi sorrise.    

Wash intraprende presto un cammino in solitaria, quello di un ragazzo che scopre passioni e talenti – il disegno, l’interesse per le creature marine, la cucina -, e quello di un uomo che sa rimboccarsi le maniche per plasmare il proprio cammino. La sua è una sfida – positiva e costruttiva – a una condizione che sembrava essere assolutamente predeterminata dalle convenzioni sociali e dalla casualità del destino. E un invito a tutti a seguire proprio questo consiglio: “Sii fedele a quello che vedi e non a quello che dovresti vedere”.

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