“’Robinson Crusoe’ compie trecento anni: uscì nella primavera del 1719, eppure ha vissuto mille vite, rinascendo ogni volta daccapo”. Per celebrare questa ricorrenza, la scrittrice Ilaria Gaspari ha riletto per ilLibraio.it il capolavoro di Daniel Defoe: “Quello che mi colpisce più di tutto è il senso spaventoso di soddisfazione che provo leggendo questo romanzo dallo stile disadorno, asciutto, a tratti scarno, eppure folgorante, robustissimo, solido; che denuda l’umanità del suo protagonista, e sa raccontare con una semplicità agghiacciante il peso reale della solitudine e la forza famelica del desiderio di vivere, che ci rende uomini e ci rende animali”

Saputella come si può esserlo solo a dieci anni, mi sentii quasi offesa quando un’amica delle mie nonne si riferì al romanzo che leggevo spaparanzata sul tappeto come a Robinson Crusoè. Da dove diavolo spuntava quell’accento? Io, di accenti, non ne vedevo neanche mezzo sulla copertina rigida del libro, un’edizione ridotta che avevo sfilato da uno dei ripiani bassi della libreria. L’illustrazione mostrava, mi pare, un uomo su una zattera e una nave che affondava in lontananza. 

Non so più che edizione fosse; non riesco a ritrovarla, quella copertina, la cerco invano in una giungla di blu e di spiagge deserte su google immagini: niente. So però riconoscere la sensazione che mi dava, allora, la nave mezza colata a picco, con l’albero maestro incrinato, quell’atmosfera di naufragio recente, le cabine rovesciate, sestanti e bottiglie di rum improvvisamente a testa in giù, le onde a divorare il legno del trinchetto e dei forzieri, il verde violento delle palme, e il blu scuro del mare. La so riconoscere, e la ritrovo ora, intatta, come se la magia si ripetesse daccapo, anche se il libro che ho in mano è un altro, ed era ben lontano dall’esistere quel giorno che leggevo stravaccata sul tappeto.

Robinson Crusoe Christophe Gaultier

Robinson Crusoe proprio in questo aprile del 2019 compie trecento anni: uscì, con un successo strepitoso, nella primavera del 1719, eppure è un romanzo che ha vissuto mille vite, rinascendo ogni volta daccapo. Per festeggiare il suo trecentesimo compleanno, Tunué pubblica in italiano, nella traduzione di Stefano A. Cresti, una versione a fumetti del francese Christophe Gaultier, che racconta l’avventura di Robinson in tavole sgargianti di colori saturi e figure dinoccolate e ritorte, come personaggi di El Greco usciti da qualche tela e finiti alle prese con una storia di mare e di vita selvaggia. A me pare giusto celebrare la ricorrenza leggendo per la prima volta l’originale, che affianco a questa bella riduzione – in omaggio anche alla fortuna di Robinson, a quello che dev’essere il segreto del suo successo lungo tre secoli. Perché Vita e avventure di Robinson Crusoe è, fra i classici di ogni tempo, forse quello che vanta il maggior numero di adattamenti, riscritture, e tentativi di imitazione. 

Defoe, avventuriero dalla vita arrischiata e affascinante, lo scrisse “dal vivo”, saccheggiando la storia vera del marinaio scozzese Alexander Selkirk, che all’inizio del Settecento aveva trascorso quattro anni su un’isola disabitata del Pacifico, al largo del Cile, che un tempo si chiamava Más a Tierra e oggi, indovinate un po’, porta il nome di Robinson Crusoe. 

Il successo non solo fu inaspettato e strepitoso, ma stranamente prolifico di imitazioni – e questo, per l’appunto, è il grande mistero di Robinson Crusoe: e, credo, il segno che, nonostante nasca dalla penna di un geniale arruffone squattrinato che si era ispirato alle esperienze (in verità piuttosto straordinarie), di un marinaio in carne e ossa, si tratti di una storia che riguarda tutti.

Nel 1898, per dire, fu compilata una bibliografia in cui venivano censite ben 196 edizioni, e traduzioni in 110 lingue. Robinson Crusoe, l’inglese riottoso all’isola su cui nasce, condannato (dopo rocambolesche avventure fra mare e pirati e una breve parentesi da coltivatore di canna da zucchero in Brasile) a vivere per 28 anni su un’altra isola senza sapere dove esattamente si trovi, è arrivato davvero, come sognava, ovunque nel mondo, nelle traduzioni gaeliche, turche e bengalesi.

Ma oltre alle traduzioni, intorno a Robinson iniziò fin da subito a crescere una piccola foresta, lussureggiante ancora oggi, di adattamenti e riscritture – qualcuna, naturalmente, più felice di altre: come il bellissimo, selvaggio Venerdì o il Limbo del Pacifico (1967), opera del genio visionario di Michel Tournier, che è probabilmente la risposta migliore alle accuse di etnocentrismo mosse a Defoe negli ultimi decenni: non l’assurdo rimbrotto a un autore di tre secoli fa per non essere stato “edificante” nel senso in cui oggi ci aspettiamo (purtroppo) che la letteratura debba sempre essere, ma un ribollente, romanzesco capovolgimento del mito, tanto coraggioso e radicale da denudare davvero le sue contraddizioni e tensioni dialettiche: affidando a Venerdì il ruolo di protagonista e a Robinson quello di comprimario, ci costringe seriamente a interrogarci sulla gerarchia che vige fra i personaggi nell’originale.

Comunque, fra Sette e Ottocento, a manifestare il maggior entusiasmo imitatorio furono i tedeschi (compatrioti del padre di Robinson, che prima di emigrare in Inghilterra si chiamava Kreutznauer): si inventarono un vero e proprio genere letterario, quello delle Robinsonaden (robinsonate, letteralmente): racconti e romanzi, che a quanto pare si contano a centinaia, di avventurose sopravvivenze esiliate dalla civiltà.

Un’infinità di bambini, ovunque nel mondo, hanno conosciuto Robinson in riduzioni che dell’originale (che io stessa leggo solo oggi, scoprendolo talmente solido e compatto e senza fronzoli da non dimostrare affatto i suoi 300 anni, se non per il fatto che ci parla del mondo come lo si poteva vedere alla vigilia dell’Illuminismo, mentre noi quello stesso mondo lo vediamo in un momento in cui l’eredità dell’Illuminismo sembra minacciata da lunghe ombre cupe) conservano solo la trama nuda e cruda; eppure, per una specie di miracolo, non lo tradiscono. 

Alla fin fine, quindi, avevo poco da stupirmi, a dieci anni, del fatto che una signora che aveva letto lo stesso classico forse una sessantina d’anni prima ne citasse il titolo in una traslitterazione che mi era sconosciuta; e se la mia insolenza infantile è stata poi punita da una cronica insicurezza nel pronunciare il cognome del naufrago leggendario, la meraviglia rimane intatta, oggi che lo rileggo da adulta e cerco di spiegarmi quale sia la ragione più profonda del fascino luminoso di Robinson. 

È vero che, come un Ulisse moderno, anche lui è un personaggio quasi archetipico, in cui filosofi e pensatori hanno letto messaggi e significati universali; è vero che, per esempio, per Rousseau Robinson Crusoe era “il più felice trattato di educazione naturale”, e che per Kant Robinson è uno dei simboli dell’etica progressista, preso com’è dalla nostalgia per l’innocenza perduta dello stato di natura – cui il processo di civilizzazione che lui stesso ha messo in moto gli impedisce di tornare. Ed è vero pure che Marx vide invece nel sobrio naufrago l’incarnazione del tipico borghese settecentesco, con la sua incrollabile fiducia di contabile efficiente nella mano invisibile della provvidenza. E – potremmo continuare all’infinito – Adorno scrisse che l’irrimediabile smarrimento dei personaggi di Kafka è l’estrema incarnazione, l’angosciosa deriva finale dello spirito di Robinson; e Camus usò, come epigrafe per la Peste, una citazione tratta nientemeno che dal romanzo di Defoe.

Ma un bambino che legge Robinson Crusoe, queste cose non le sa. E me le scordo tutte quante pure io, in un battibaleno, quando apro il libro e mi ritrovo immersa nella storia: improvvisamente sola, isolata come il naufrago su quell’isola in cui può ricostruirsi un piccolo mondo, ma che è impossibile, per lui, nel momento stesso in cui ci si trova sopra, immerso nella sua natura lussureggiante e a tratti nemica, collocare sulle mappe. Quello che mi colpisce più di tutto è il senso spaventoso di soddisfazione che provo leggendo questo libro dallo stile disadorno, asciutto, a tratti scarno, eppure folgorante, robustissimo, solido; che denuda l’umanità del suo protagonista, e sa raccontare con una semplicità agghiacciante il peso reale della solitudine e la forza famelica del desiderio di vivere, che ci rende uomini e ci rende animali. 

Credo che il segreto di Robinson Crusoe, il motivo per cui ha saputo e continua a saper parlare all’immaginazione di uno stuolo di lettori di ogni età, di ogni tempo e di ogni luogo, pur in mille riduzioni, traduzioni, trasposizioni e adattamenti, sia racchiuso nel modo in cui racconta l’avventura di sopravvivere: perché la racconta vivendo, e sopravvivendo pure lui – pure lui come romanzo, intendo. Mi incanta, mentre lo leggo, scoprire il mistero di questo libro nuovissimo e vecchio di trecento anni nell’imperscrutabile sovrapposizione fra la forma e il contenuto, in questa sua fame vorace di sopravvivenza che rende viva ogni parola, ogni pagina, ogni scena. 

Come una pianta, un robusto rampicante che sa trasformarsi un’infinità di volte pur di continuare a crescere, nelle metamorfosi di Robinson vedo innalzarsi una foresta di simboli e di miti, di significati che si sdoppiano ma che, prima di essere simboli, prima di rappresentare qualcosa d’altro, respirano, germogliano, prosperano. 

Entrare dentro Robinson Crusoe è davvero come addentrarsi in una giungla, vedere la luce di fuori che arriva verdissima di clorofilla, indovinare il blu del mare che sfuma oltre i confini della sabbia, resistere alla tentazione di correre incontro ai velieri che passano, rinunciare a essere salvati e rimanere ancorati alla febbre della vita solitaria, della vita selvaggia e cannibale. È come arrivare a nuoto alla nave fresca di naufragio, infilarsi nelle cabine rovesciate dalle onde a recuperare qualche cassa malconcia di generi di conforto, e ricominciare una vita disperatamente nuova, disperatamente viva. È come provare davvero il sollievo di incontrare in Venerdì un proprio simile pur vedendolo diverso, di insegnargli i nomi delle cose e impararli daccapo, e intanto il tempo si dilata a dismisura, e un’impronta sulla spiaggia, nella solitudine dell’isola, diventa un presagio inquietante, e trasforma l’avventura marina, di colpo, in un giallo – come capì benissimo, dalle lontananze del suo isolamento allucinato, Edgar Allan Poe. 

Leggere, anche da adulti – persino da adulti – questo libro-rampicante, che sopravvive, come le piante, attraverso una miriade di metamorfosi, è come giocare a reinventarsi il mondo da un punto sperduto di cui non si può, neanche volendo, comunicare a nessuno la posizione sulle mappe, un punto in cui, anche se le orme sulla spiaggia ci dimostrano che non è così, ci fingiamo i primi e gli unici uomini sulla terra; è come giocare pur sapendo che la vita è altrove, e che non si cura di aspettarci: ma siamo tutti vivi, intanto, sull’isola che ci inventiamo. Per raccontare poi il ritorno di Crusoe al mondo, la sua carriera brillante, la famiglia che si costruisce, basterà magari una paginetta scarsa.

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne.
Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Nel 2018 Sonzogno ha pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia  in cui Gaspari mette in scena una storia d’amore, ma non solo: vuole anche, con l’aiuto di filosofi e romanzieri (da Montaigne a Flaubert, da Freud a Simone Weil), tentare di sciogliere i grandi nodi che fanno sembrare complicata la vita amorosa.
Nel 2019 è la volta di Lezioni di felicità – Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi): nel libro, attraverso la cronaca di sei settimane “filosofiche”, ciascuna vissuta nel rispetto dei precetti di una diversa scuola, Gaspari guida il lettore in un insolito esperimento esistenziale, a tratti serissimo, a tratti esilarante.

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