Un approfondimento dedicato a “Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio”, il romanzo con cui Remo Rapino ha vinto il Premio Campiello 2020

Mò, quelli là, gli altri, tutta la gente di sto cazzone di paese, vanno dicendo che sono matto. E mica da mò, che me lo devono dire loro, quelli là, gli altri, tutta la gente di sto cazzone di paese che sono matto. Pure io lo so, e sempre ci penso, notte e giorno, d’inverno e d’estate, ogni giorno che il Padreterno fa nascere e morire, con la luce e con lo scuro, ci penso, che c’ho sempre pensato per vedere di capire come mai sta coccia mia da quasi normale s’è fatta na cocciamatte, tutta na matassa sgarbugliata fuori di cervello.

Se è vero che per ogni paese c’è un matto, reale o immaginario che sia, alzi la mano chi non ha mai temuto di incontrarlo. Ma cos’accadrebbe se fosse lui a parlare e a raccontare ciò che vede? È proprio ribaltando la prospettiva che si comincia a leggere il libro di Remo Rapino: Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax).

Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio

Siamo nel 2010, Liborio ha 86 anni, e decide che è giunto il momento di raccontare la sua storia, di sedersi al tavolo della cucina, e con la Bic nera provare a tracciarne un senso. Perché i suoi compaesani vanno dicendo che è matto, ma lui matto mica ci è nato.

Così allora mi è venuto alla mente e pure al cuore questo sghiribizzo intricante di raccontare tutto quello che mi è successo da quando sono nato a mò che c’ho più di ottant’anni, certo quello che mi ricordo tra na ripensata e l’altra, che non mi posso ricordare tutti i fatti e fattarelli.

Nato in un paese del sud Italia, il protagonista di questa storia vive con la madre. Dal padre ha ereditato gli occhi, di più non può sapere, perché dopo averlo messo al mondo se n’è andato alla Merica, all’Argentina o allo Brasile, chi se lo ricorda. Gli piace la scuola, soprattutto le poesie, e ha una profonda ammirazione per il maestro Cianfarra Romeo, venuto chissà come dall’Italia di sopra. Dopo l’esame di quinta elementare vorrebbe tanto continuare a studiare, ma tutti gli dicono che è un ometto, che deve pensare a sua madre, che se ne sta più di là che di qua con quella tosse che non se ne vuole proprio andare, manco con le medicine, manco con le preghiere alla Madonna e manco con le bestemmie di tutti i santi del paradiso, che deve imparare un mestiere, che la scuola è per i ricchi. Così, comincia a lavorare dal funaro del paese, che lo fa sudare a suon di strilli e di ficozzi.

Un pomeriggio, mentre gli altoparlanti trasmettono il vocione del Duce che annuncia in gran festa l’ingresso in guerra, corre a casa a informare la madre. Lei sta dormendo e non si sveglierà più. Rimasto solo a casa, prende atto che la vita pure di mancanze è fatta, e si rimbocca le maniche.

Inizia un nuovo lavoro da barbiere e durante una festa di paese, sotto la luce dei fuochi d’artificio, incontra l’amore della sua vita: Giordani Teresa. Amore guastato sul nascere dall’arrivo di una cartolina che lo invita a partire per il servizio militare. Prepara una valigia che non si riempie mai, perché tutto ciò che possiede lo ha addosso, e parte. Prende il treno per la prima volta, estasiato dai rumori, dai panorami, dal blu del cielo che appare dopo il buio delle gallerie, dalla compagnia mangereccia, e si lascia la tristezza alle spalle.

Finito il servizio militare rientra in paese, ma non trova nessuno ad aspettarlo, manco un cane che diceva È tornato Liborio da soldato, manco un cane che ti veniva appresso (…).

Quanto a Giordani Teresa, s’è sposata, e a Liborio non resta niente.

Quella città cominciava a riempirsi di ricordi e di fallimenti, che mica uno ancora giovane poteva accontentarsi del lavoro triste del funaro, e poi non c’era più manco Giordani Teresa a trattenermi, anzi quello era un motivo forte di più per squagliarsi lontano, ma lontano davvero e ricominciare tutto daccapo come se ero tornato un ragazzo di prima della guerra. Ma mica era facile, ci voleva una spinta, una cosa grossa che ti dava coraggio, una voce che ti urlava alle spalle Ma che cazzo stai a fare ancora qua con tutto sto arrotamento di coglioni, va’ va’ e non ti voltare indietro che non c’è più niente da guardare in questo paese balordo che uno cammina cammina e poi si accorge che sta sempre fermo allo stesso posto.

Comincia così il lungo pellegrinare del nostro cocciamatte, testa matta, come lo chiamano in paese. Si trasferisce a Milano, in una casa di ringhiera, regalandoci una descrizione della città e dei suoi abitanti nitida e struggente, tra le pagine più belle di tutto il libro. La gente correva correva e quelli che si conoscevano si salutavano con una parlata strana che non ci si capiva niente anche se stavi attento e quello era un problema che se non capisci le parlate un poco strauss è come essere muti e sordi, pure se parli e ci senti.

Perché Milano era così, mica che la potevi cambiare con una bacchetta magica, là bisogna trottare sempre senza voltarsi indietro che se no ti viene da piangere, il magone ti viene, lo struglio di tornare a casa tua dove ci sta più sole e meno guazza ma più truscia nera di sicuro. Milano, questo lo avevo capito dopo qualche anno, è una città troppo grande per un Liborio qualunque, un posto pieno di troppe cose per un Liborio come ero io, tutte quelle strade, le piazze, i castelli, gli stabilimenti, le chiese più grosse delle navi, i tram che ti suonano se non ti scanzi e se non ti scanzi ti scatafasciano, le donne incipriate, i negozi con le luci alle vetrine, il panettone e la cotoletta e il risotto che chi l’aveva mangiate mai quelle cose, anche se non ero più povero povero come una volta che ero povero senza pietà. Era tutte queste cose Milano e pure altre che mò non vale la pena di dire, Milano ti offre una cosa e te ne sgraffigna un’altra, ti fa una promessa, e se la rimangia in mezzo alla nebbia.

A Milano trova lavoro in una fabbrica di macchine da cucire, diventa amico di un certo Giorgio dal cognome strano: Scebanko, Scerbinko, Scerbanenco, perché veniva dalla Russia e s’era messo a fare tanti mestieri per campare e in quel periodo capitò pure alla Borletti dove ci stavo io e come che io gli ero simpatico mi raccontava un sacco di storie di poliziotti e di delinquenti dove ci scappava quasi sempre il morto che io mi ci perdevo però lo ascoltavo fino all’ultimo per andare a vedere come andava a finire.

Per trovare una spiegazione al perché la sua vita debba consistere in un’impietosa condizione di sfruttamento e per trovare compagni fidati, abbraccia l’ideologia comunista e si iscrive al sindacato; diventa un fiommista anche se non capisce gli argomenti astrusi delle adunate. Frequenta anche le case chiuse, dove alle donne con cui si unisce chiede di raccontargli la loro storia, e le sta a sentire con piacere, per scaricarle un poco il dolore di quella vita triste, condividendo con loro la tristezza degli emarginati.

Attraverso gli occhi ingenui e inconsapevoli di Liborio vediamo l’insensatezza della guerra, l’Italia del boom economico, le lotte operaie, gli anni di piombo, l’ascesa politica di Berlusconi, la caduta delle Torri Gemelle. Fabbricherà marmellate alla Santa Rosa e bulloni alla Ducati, dove esausto di produrre trecento pezzi al giorno chiederà al suo capo a che serve tanta fatica, e non ottenendo risposta avrà una reazione catartica così forte che gli costerà qualche anno in manicomio.

Gli anni più felici della sua vita, questi, dove incontrerà figure che come lui condividono il destino di chi è condannato ai margini della società, perché considerato stravagante. Non è mica tanto matto questo Libbò, dirà il dottore che lo avrà in cura, riempiendogli il cuore di orgoglio e senso di rivincita. Una frase che si porterà dentro fino alla fine, al rientro in paese, dove l’emarginazione raggiungerà un livello tanto estremo da creare nel lettore un forte sentimento di ostilità nei confronti di chi con il solo sguardo metterà Liborio nella condizione di vergognarsi di sé stesso. Una vergogna tale da indurlo a non andare più a ritirare la pensione di cui vive, perché perfino stare in coda allo sportello, tra commenti maligni e occhiate di disgusto, lo fa sentire sbagliato. Ci si trova a parteggiare per lui, a pensare: matti siete voi, che non vedete l’immensa bontà d’animo di quest’uomo!

I piani di lettura dell’opera, vincitrice del Campiello 2020, sono almeno tre.

C’è il piano della lingua, che è l’effettivo e imprescindibile motore di tutta la narrazione. Si tratta di un monologo, di un lungo ragionamento che il protagonista fa con sé stesso, senza punteggiatura, nell’unica lingua che conosce, un dialetto sgangherato e fortemente espressivo. Senza questa lingua, non sarebbe possibile avere un’immagine così viva e autentica di Bonfiglio Liborio. Il merito di Rapino, tra gli altri, è proprio quello di saper rendere in modo plastico non solo i personaggi, ma anche i sentimenti, attraverso poche semplice parole. Le parole non vengono usate per descrivere, né per interpretare, ma per fotografare, come quella donna che chiudeva la finestra per mangiare in pace e non sentire i rumori della guerra di fuori, rimasta là in piedi aggrappata al davanzale che mentre si stava a morire guardava un vaso con un geranio rosso che forse pure il geranio rosso come il suo sangue la stava a guardare che si stava a morire, ma in silenzio per la troppa sorpresa di una morte a quel modo.

Una lingua che viene usata magistralmente: ci sono certamente momenti in cui ci si commuove, ma moltissimi altri in cui si ride di gusto, per situazione rovesciate, tragicomiche, o per canzonature dei personaggi rese possibili da quelle locuzioni triviali che solo il dialetto consente.

C’è la Storia, con la s maiuscola, che attraversa tutto il Novecento, il “secolo breve”, tanto denso di eventi. Una storia vissuta dal basso, e quindi sofferta: la guerra è combattuta, non letta sui giornali, donne e bambini perdono la vita davanti agli occhi sbigottiti di un uomo che senza sapere perché si trova sotto un cielo illuminato dagli spari, non sono solo vittime numeriche; il boom economico è vissuto lavorando in fabbrica, tra sfruttamento e infortuni sul lavoro, non di certo a bordo di una Seicento, la legge Merlin e la legge Basaglia trovano senso nella quotidianità del protagonista, così come la radio prima e la televisione dopo, che raccontano la morte di Togliatti o la caduta delle torri gemelle.

C’è infine la storia, con la s minuscola, che è quella della trama, della vita, della morte e dei miracoli di Bonfiglio Liborio. Un uomo di origini umili, che non perde tempo a piangere le condizioni disgraziate che la sorte gli ha dato in dono, ma seppur privo di mezzi, lotta per cambiarle e, nei limiti della sua comprensione del mondo, renderle migliori. E lo fa da solo: soffrendo la solitudine, ma senza mai autocommiserarsi.

Certo, Liborio è un cocciamatte, parla tra sé e sé, nasconde i sassi in tasca per paura di volare via, usa pancia e cuore, non di certo la ragione, ha i rumori nella testa e che vede ciò che le persone comuni non vedono, ma proprio per questo ci offre una sguardatura privilegiata delle dinamiche umane e degli eventi. Lo sguardo di chi anagraficamente invecchia e quindi si trova a vivere nel mondo degli adulti, ma mentalmente resta bambino, perciò puro, incapace di difendersi dalla cattiveria umana, che anzi sopporta con un misto di sbigottimento e incredulità.

La storia di questo cocciamatte è la storia, in fondo, che tocca ognuno di noi. Che cos’è la “normalità” nella società in cui viviamo? Omologazione, appiattimento negli stereotipi, non accettazione delle diversità, egoismo e chiusura in sé per paura di perdere ciò che di buono che si possiede, ricerca disumana del profitto. Spesso ci sentiamo a bordo di una vettura che viaggia a una velocità folle, impossibilitati a scendere, a fermarci, a riprendere fiato. I nostri movimenti sono automatizzati, rapidi e ottimizzati al risparmio di tempo, non c’è modo di fermarsi a riflettere, giacché fermarsi significa interrompere il flusso, riabituare i polmoni a respirare e il cuore a battere a un ritmo lento; la voglia di ripartire si spegne e non si riesce più a riacquistare la velocità necessaria per risalire a bordo. Si rimane irrimediabilmente a piedi, fermi o comunque rallentati.

Eppure questo rallentamento non è un male, perché consente di osservare la velocità degli altri da lontano, in tutta la loro follia. Tutto ciò che nella nostra quotidianità si trasforma in abitudine, bello o brutto che sia, diventa “normale”. Ma non è detto che normale, nel senso di conforme a ciò che è abitualmente è la norma, lo sia davvero. Liborio ci restituisce proprio questa verità: ogni storia di uomo, matto o normale, è una mescolatura delle stesse cose, na cascata di lacrime, qualche sorrisetto, na cinquina di gioie di straforo e un dolore grosso come quando al cinema si spengono le luci.

Un libro colto, autentico, di una bellezza senza tempo, da regalare e conservare in libreria. Una storia che commuove, che fa riflettere, che accompagna per mano nel senso di una vita, che fa venire voglia al lettore di infilarsi tra le righe per modificarne il corso, per abbracciare il protagonista e ridere e piangere con lui, e che, una volta finita l’ultima pagina, lo riconsegna alla realtà un po’ spaesato e più umano di prima.

Perché la storia di un uomo è la storia di ognuno: siamo tutti la somma di ricordi e rimpianti, gioie e dispiaceri, fatiche e sollievi, sogni e compromessi, ma ciò che conta è andare avanti e vivere la vita, giacché è un regalo che capita una volta sola, ed è bella, pure quando è difficile.

Così è tutta la vita nostra, acqua che viene e acqua che va, se poi ridivento polvere come dice il prete sull’altare, però pure quella polvere mia sempre polvere di uomo è, un uomo di carne con tutti i sentimenti, i dolori, i rumori nel cervello, bistanclaque bistanclaque, tata tatan tatatan, tutum tutum tututum, che per questo mi sono scantonato, che poi non sono solo i rumori della fabbrica, ma tutti i ricordi della vita mia interamente, proprio come ci faccio scrivere sulla lapide, dopo che un giorno prima o poi mi morirò.

QUI finalmente RIPOSA
BONFIGLIO LIBORIO
Fiommista
nato 22 agosto 1926 morto … (ce lo mette il marmista)
Aveva gli occhi uguali a quelli di suo padre
Volare oh oh nel blu dipinto di blu (se ci capa)

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