Nel racconto lungo “Bontà” Walter Siti racconta di quanto la liberazione “sia difficile, soprattutto perché spesso non sappiamo da che cosa precisamente ci si debba liberare” – Su ilLibraio.it un estratto

Bontà: “Dove si racconta di quanto la liberazione sia difficile, soprattutto perché spesso non sappiamo da che cosa precisamente ci si debba liberare”.

Così si legge nella prima pagina dell’ultimo libro di Walter Siti, il “racconto lungo” Bontà, pubblicato da Einaudi Stile Libero, e viene subito da chiedersi: cos’è questa bontà che ha a che fare con la liberazione?

bontà

Il protagonista si chiama Ugo, “un nome assurdo che ha sempre odiato”. Ugo è un personaggio cinico, spocchioso, insoddisfatto. È nato nel 1944 ed è ricco di famiglia: possiede un appartamento in Liguria, una barca e una casa milanese in via Malpighi. È uno che dalla vita ha sempre avuto tutto, ma c’è qualcosa di insanabile che lo tormenta continuamente, e non è legato al fatto di non aver mai conosciuto il padre biologico, la vera colpa, per lui, è non avere abbastanza fame. “Fame di gloria, di fatica, di competizione. Voleva diventare scrittore, il più grande di tutti, a vent’anni, anche lui: ma che meraviglia nel lasciarsi cadere, nel rinunciare alle aspirazioni più intime ed eccelse, nel consegnarsi intero alla mondanità sostitutiva, alle pirotecniche del sesso facoltoso e sempre vincente, vincente ma non vittorioso”.

Ugo rinuncia ad affermarsi scrittore e diventa editore. Si accontenta di una vita ai margini di quella che aveva sognato. Ha rovesciato la rassegnazione in arroganza e ora è convinto di valere più degli autori che pubblica. Osserva il mondo dell’editoria con sguardo distaccato e ironico… forse, con cattiveria? “Come non ironizzare sui luoghi comuni che fanno vendere? I romanzi sui bambini malati di cancro, sulle donne aviatrici nella Seconda guerra mondiale, sui migranti che ripopolano paesi fantasma (“a questo punto, allora, facciamolo scrivere da un migrante vero”); sui trentenni frustrati che riscoprono la natura vergine, sui giornalisti eroi e le camorriste riscattate dalla maternità, sulle paturnie sentimentali del ceto medio purché finisca bene”.

Come scrive Pierluigi Battista sul Corriere della Sera, probabilmente è proprio questa frustrazione l’opposto di quella bontà citata nel titolo. Forse è da questa insoddisfazione cronica che il protagonista vuole liberarsi. Per questo, consapevole di essere arrivato ormai a uno stadio di vecchia (“il corpo decrepito è l’unica misura, quel corpo riflesso allo specchio mostra tutta la sua miseria”), decide di fare qualcosa: compiere un gesto finale (e teatrale), “un poema d’azione“, che lo possa riscattare da tutti quei “dolori atroci” che continua a portarsi dentro.

Attraverso una scrittura che mescola registri e linguaggi diversi, Siti, considerato uno dei più importanti scrittori italiani, vincitore del Premio Strega 2013 con Resistere non serve a niente (Rizzoli), scrive un romanzo per capire cosa ci porta a vivere la vita in modo anestetizzato e per cercare il significato di una parola “che mi faceva e mi fa ancora tremare, una parola nuda, stuprata da molti e da molti onorata in silenzio“: bontà.

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it un estratto:

Il suicidio, nella maggioranza dei casi, è frutto di stanchezza o di superbia: ci si ammazza per smettere di soffrire, o perché si considera la vita al di sotto delle nostre aspettative; talvolta il suicida intende vendicarsi di singole persone che l’hanno offeso («ora vedrete»), amanti, genitori o compagni di scuola; rarissimamente ci si immola per senso di colpa o per stare all’altezza di un ideale, o per testimoniare una fede (martirio).

Ugo vuole morire sulla scena, come i grandi attori. Desiderare come un disperato la bellezza è stato il solo eroismo della sua vita: nel nòcciolo dello stereotipo che l’ha definito per cinquant’anni (il ricco gay internazionale promiscuo e consumista, il chiagni-e-fotti fintamente trasgressivo) s’annidava il rancore tragico e radicale di Shylock l’ebreo – strappare il cuore o farselo strappare. I goyim, nel suo caso, essendo l’intera Natura che l’aveva ingannato con forme tanto attraenti quanto umilianti. Orgasmare nella bellezza, non importa con chi, purché senza limiti; innamorarsi è volgare, morire di perfezione no.

Il suo motto sul posto di lavoro («non mi accontenterò di niente di meno»), per cui l’han sempre preso in giro, era il pallido riflesso d’una vocazione piú alta; ora bisogna trarne le conseguenze irrevocabili. Permanere sopra le nuvole, cosí compatte che ti aspetti il pescatore con la barchetta (e quell’idiota di Carlo si chiedeva perché, quando prende- vano insieme un aereo, lui non leggesse e tenesse la fronte incollata al finestrino); Ugo ha deciso di morire per cercare la sua vera patria, per ribaltare il giudizio in extremis, per chiudere in vantaggio.

– Devo dirti una cosa dolcissima, mi sono diluito nel tuo corpo… non ho paura, uccidimi con le tue mani, basta che me le allacci intorno al collo e stringi… non smettere di toccarmi i capezzoli… è giusto che tu stai con una donna piú giovane… morire per mano tua è tutto quello che posso ancora avere dalla vita.
Slacciandosi la giacca da camera, Ugo si sentiva Clara Calamai; teatrino erotico di vecchi bavosi a cui Manuel non ha mai dato importanza. Ma stavolta si spaventa, perché questo vecchio (il suo consorte!) sta prendendo la cosa terribilmente sul serio, «’stu babbasuni vuole che ’u scanno vero».

Ugo, è cosí, non immagina altra soluzione che suicidarsi per procura, nessun’altra onorevole via d’uscita; scambiando la testardaggine per grandezza, soltanto salendo sul patibolo del Sesso Incarnato si illude di collocarsi nella linea dei Crivelli che contano, smentendo mammina. «Il mio animale dorato deve pur guadagnarsela, la bella vita». Ormai si è spinto cosí avanti nella fantasia che l’idea di deflettere lo annienterebbe («sacrificandomi darò un senso agli errori, riscatterò le impotenze, non finirò come un relitto a mendicare sulla soglia della normalità»).

Per innervare il simbolo chiede a Manuel di vantare trascorse violenze («… allora io la mozzico e la sbatto contro la parete… mia madre ha chiamato i carabinieri e l’ho dovuta bastonare, mi stava vendendo per la seconda volta… con l’eunuco, cosí lo chiamavo per via del coglione solo, siamo arrivati alle mani grosse, colpi di sedia… lo assaltai col coltello di Rambo, quello di survivor… perdo il controllo a causa gli anabolizzanti, mi monta una su perforza dentro, non mi sento piú la faccia, mi cala come un velo… divento bianco, freddo, col cuore chiuso e non riesco a fermarmi»), ma poi gli viene voglia di strizzargli le cosce e fargli un pompino.

(…)

© 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

 

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