Il ricorso al dialetto e alla iperaggettivazione, ma anche all’uso in chiave espressionista di un certo lirismo. Torna il western pugliese di Omar Di Monopoli – Su ilLibraio.it un capitolo dal nuovo romanzo, “Brucia l’aria”

Torna il western pugliese di Omar Di Monopoli, maestro del genere. L’autore di Uomini e cani, Ferro e fuoco, La legge di Fonzi e Aspettati l’inferno (pubblicati da Isbn edizioni), dopo aver pubblicato con Adelphi Nella perfida terra di Dio esce per Feltrinelli con Brucia l’aria. Torna dunque lo stile che caratterizza i romanzi dello scrittore di Manduria, che in una riflessione del 2018 per ilLibraio.it spiegava: “Ho cominciato a rielaborare la mia terra, la Puglia, immaginandola come un posto non troppo dissimile dall’America dei grandi romanzi southern-gothic su cui mi ero formato e, grazie all’ausilio di alcuni accorgimenti stilistici (il ricorso al dialetto e alla iperaggettivazione, ma anche all’uso in chiave espressionista di un certo lirismo), sono riuscito a convogliare in un personale afflato narrativo alcune istanze che mi stavano a cuore: il sud come campo di battaglia omerico, i lacerti di un crimine organizzato duro a sconfiggere, la disfunzionalità di certi rapporti umani, la violenza e l’incanto di una terra indomita”.

Il nuovo libro ci porta nell’estate del 1990, quando un gigantesco incendio divora buona parte del litorale di Torre Languorina, terra di nessuno all’estremità più orientale di un Salento lontano da qualsiasi traiettoria turistica. Tra i resti bruciati dell’immenso falò viene rinvenuto un cadavere, che per le autorità è subito registrato come il responsabile del disastro: Livio Caraglia, pompiere locale dai trascorsi ambigui. Per alcuni un eroe, per altri un estortore locale in odore di mafia.

Dopo vent’anni sono i suoi figli a fare i conti con la cenere di quel passato: Rocco Caraglia, il maggiore, si sforza di rigare dritto, dopo aver scontato una lunga detenzione per l’omicidio di un finanziere mentre era alla guida di un camion che trasportava sigarette di contrabbando; Gaetano, il più giovane, sogna di cambiare il proprio destino scommettendo sui combattimenti di cani.

Rocco e Gaetano convivono nella decadente masseria di famiglia, accudendo la madre malata con l’aiuto di Nunzia – primo amore mai dimenticato di Rocco, che adesso è madre, e moglie di una guardia giurata. Il distacco è avvenuto negli anni della prigione, ma ora che Rocco sembra deciso a rientrare nel perimetro della legalità, anche per Nunzia non è facile incontrarlo ogni giorno senza sentire rinascere quell’amore interrotto…

Quando Precamuerti, un vecchio capobastone della Sacra corona unita, fa ritorno dalla latitanza, deciso a riorganizzare il mandamento provinciale, i fragili equilibri su cui si regge la comunità collassano. Per tutti loro si tratterà di guardare in faccia i propri demoni.

omar di monopoli brucia l'aria

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo:

Lungo la periferia di Languore l’abbaglio del nuovo giorno accendeva di giunchiglia il colmo dei tetti regalando alle cose la fissità del sogno. Un vecchio Fiorino smarmittato con il guardaspalle di Santo alla guida si staccò dal rettifilo d’asfalto della provinciale per perdersi nel dedalo di carraie che innervavano il vasto tratto di campagna tra la cittadina e il litorale. Peppo Canzirru, malagiato tra i sacchi di granaglie nel vano di carico, in faccia l’espressione stropicciata degli insonni, torse appena la bocca e con una pacca al conducente gli ordinò di virare tra le frasche.

Il furgone costeggiò dapprima una cava profonda oltre la gariga, i fianchi solcati dagli affondi della trivella e cosparsi di scabri macigni, poi deviò dietro una ripa di falasco imboccando una viottola stretta come una cucitura − troppo erosa per essere una strada e troppo dritta per essere un fossato − al cui culmine torreggiava silente la struttura di un casale.

Avanzarono fino all’ingresso, il sobbalzo del Fiorino dagli ammortizzatori malandati tra le sconnessure del terreno. Quando il veicolo si arrestò, Canzirru ne discese in un viluppo d’imprecazioni sboccate, si sgranchì con qualche piegamento e andò a spalancare il rugginoso portone. Disturbato dal clangore, un corvo spennacchiato si levò in volo seminando il proprio canto di malaugurio nell’aria.

L’aia del caseggiato era gremita di ciarpame e mucchi di stallatico. C’era una vecchia pressafieno incagliata nel terreno, le fiancate ricoperte dall’edera rampicante: una coppia di botoli male in arnese si avvicinò a squadrare i nuovi arrivati ringhiando e guaiolando sommessamente, poi batté in ritirata verso il macchione ai bordi del podere.

Lu scindìmu? chiese il guardaspalle di Santo cacciando fuori dal finestrino la riccia testa lionata, le vene del collo incordate dalla posa innaturale.

Eccerto, gli rispose sul crinale di una sfuriata Canzirru, tornando ad affacciarsi sul vano di carico e liberando qualcosa d’ingombrante dalla copertura dei sacchi. Vienitelo a pigliare da qua dietro, che io intanto và essu li puerci…

Detto ciò s’infilò alla svelta un paio di gambali per avviarsi nello stabbiolo alle sue spalle, in un angolo del quale si stagliava un baracchino di arenaria circondato da una fila di trogoli puteolenti.

Quando il culturista ebbe schiuso i serramenti, una decina di maiali grugnenti si riversò all’esterno pesticciando confusa e irata il cerchio di fango e ispezionando con selvatico disappunto il vuoto delle mangiatoie. Sciò, sciò! gli vociò sopra Peppo cercando di disciplinarli con un punzone elettrico. I suini lo accerchiarono furibondi scansandolo con riluttanza, per nulla o quasi intimoriti dalla scossa del pungolo.

Il suo compare aveva frattanto tirato fuori dal Fiorino il corpo di Santo, maldestramente avvoltolato in un telo di plastica, e se lo era caricato sulle spalle.

Vai, butti lu sangu! gli ordinò Canzirru senza smettere di distribuire scariche a destra e a manca, attorno a sé il reiterato crepitio dell’arma si mescolava al chiasso spasmodico degli animali resi pazzi dalla fame, vai mò ca quisti finisce che a mmei mi mangiunu!

Rilasciato il cadavere ancora impiastricciato di sangue nella mota, i maiali si voltarono all’unisono dalla sua parte come sincronizzati da un braccio meccanico prima di lanciarvisi addosso con una voracità sperticata. Coi musi polluti, digrignanti, si assembrarono a flaccidi spintoni su quelle povere spoglie inermi facendone scempio in un concerto di versi ebbri e fuori controllo.

Li muerti loro, che canna! commentò sprezzante Canzirru voltandosi a sputare di lato eppoi riguadagnando a falcate precipitose l’uscita dallo stabbio, per affiancare alfine il guardaspalle.

I due uomini se ne ristettero qualche minuto immobili, non una parola, i gomiti apposati sulle traverse di metallo del recinto, a contemplare tra l’orridezza e l’abitudine l’oscena crapula dei porci che si consumava sotto i loro occhi. Sicché Peppo, ceffonando una mosca che gli gironzolava sul cranio, si girò mollemente faccia all’altro: uno scherzo, precisò, fammene uno solo, cumpà, e ci finisci puru tu assieme a iddu, là ddintru…

Quello lo scrutò sornione. Era un tipo piuttosto longilineo per il genere di mestiere cui si era votato, a parte una voluminosa pancia a forma di melone che gli strabordava sulla cintura. Pè, rispose facendo spallucce, il pagliaio fulvo dei capelli come le parrucche di un brutto sabba di provincia. Manco l’a ddiri. Quiddu ca facìa per Santo mò lo faccio per te, ci sta niente da aggiungere…

Si blindarono daccapo in un silenzio immoto lasciando che il soverchio triturio delle carni lacerate e delle ossa che si spezzano coprisse i suoni del mattino ormai maturo, uno zefiro di vento caldissimo sorto da chissà dove che s’innalzava accarezzando l’erba pepina; poi dalla balaustra di una delle camere del casale, su al primo piano, due figurette incanutite si appalesarono come malombre, le loro facce ferme e torve: una apparteneva a un uomo in canottiera in là cogli anni, tarchiatello, la testa spiumata a chiazze e un collo vizzo che faceva senso solo a mirarlo. Daccanto una vecchia ossuta, talmente coriacea da parer di cuoio, indosso un abito liso di cotone antracite, rigida su una sedia a rotelle come una mummia impagliata.

Registrato il loro sopraggiungere, il culturista alzò lo sguardo e prese a rampognarli sbracciandosi a tutto spiano: trasìti, jà, trasìììti! strillò, facendosi paonazzo in volto. Tornate intru casa e no’ bè preoccupate, non è robba Indifferente a qualsiasi richiamo, la coppia di anziane sfingi rimase muta a fissare il tribolato scenario sottostante. Peppì, parenti tuoi sono? s’arrischiò a domandare il guardaspalle, timonando con flemma calcolata gli occhi in direzione del duo di vegliardi infacciati.

Canzirru non se lo filò di pezza. Continuò a inveire con foga all’indirizzo della balaustra. V’àggiu dittu entrate, si spolmonava alacre. Mèna, toglietevi subito dai coglioni. Quiddu ca fazzu io non vi deve interessare!

Sì na vergogna, sentenziò d’un tratto il vecchio, il dito stortignaccolo e tutto nocche puntato sul pigmeo pieno di muscoli dabbasso.

Vabbànni, tàta, vattene e lasciami lavorare, replicò poco convinto quello; ma l’uomo, facendo scintillare due piccoli occhi fulgidi come pezzetti di mica fusi nella faccia abbruschiata dal sole, aggiunse con voce roca e se possibile ancor più perentoria: hai stato sempre na vergogna, per questa famiglia, e io e tua madre speriamo soltanto lu diavulu cu te ne porta an prima e cu ci perdona per averti messo al mondo…

Canzirru incassò l’anatema umettandosi le labbra imbarazzato, un segmento di disperazione a frantumargli la grommosità dei tratti. Lui e il compare accosto attesero senza aggiungere altro che la coppia rinculasse lenta nell’abitazione − il vecchio che spingeva con rassegnazione olimpica la carrozzella della moglie – prima di tornare a fissare un po’ allocchiti il gran lavorio di ganasce nel porcile.

Ma quiddi erano… sillabò a mezzavoce il guardaspalle. Statt citt! lo chiantò Peppo senza guardarlo.

I sorvoli del vento spingevano ora dalla loro parte lo sferragliare impreciso e distante delle trebbiatrici sulla provinciale mentre i porci continuavano a gozzovigliare sgraziati e onnipotenti coi resti del mammasantissima facendosi beffa, con imperturbabile determinazione, di ogni sua gloria passata e infame.

(continua in libreria…)

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