Arturo Belluardo, dopo il romanzo d’esordio “Minchia di mare”, torna con “Calafiore”, romanzo che mescola generi e linguaggi, comico e splatter… – Su ilLibraio.it un estratto

Arturo Belluardo, nato a Siracusa, vive e lavora a Roma. Ha scritto racconti apparsi in antologie edite da Nottetempo e dal Goethe-Institut e sulle riviste Lo Straniero, Mag O, Succedeoggi e Nazione Indiana. Dopo Minchia di mare, romanzo d’esordio pubblicato da Elliot nel 2017, arriva il suo secondo libro, Calafiore, pubblicato da Nutrimenti.

Calafiore Arturo Belluardo

Belluardo racconta le peripezie di un perdente: l’obeso, bulimico Calafiore. Ossessionato dal cibo, spinto dalla sua compagna Serena a patetici ed esilaranti tentativi di dimagrire, Calafiore percorre la sua spirale di sconfitta abbandonando amore, lavoro e casa. Cercherà il riscatto, tentando di battere il Guinness per chi mangia più tramezzini in un quarto d’ora. Ma non ha fatto i conti con due giovani angeli della morte, due cannibali che hanno deciso di divorarlo in diretta web.

Un romanzo che mescola generi e linguaggi, comico e splatter, e che propone un’amara e grottesca riflessione sulla ‘società che mangia’ fino a divorare sé stessa.

Per gentile concessione dell’editore ilLibraio.it pubblica un estratto:

Ti piacerebbe, eh? Ti piacerebbe sventrarmi, disporre una a una le strisce del mio bacon su una padella a friggere. Ti piacerebbe vedermi diventare croccante. Ungerti labbra e dita con il mio grasso. Oppure – che dici, Marta? – sono riuscito a convincervi e mi lascerete andare? Andare dove, poi?

Dimmelo tu: mi salvo e poi? Di me è rimasto soltanto il corpo, l’anima, se c’è mai stata, me la sono mangiata quando non ho capito. Non ho capito che il grasso serviva a proteggere quell’esserino minuscolo che sono, quel bambino mai cresciuto, sprofondato nell’amorfo, felice di sprofondare.

Una volta Balzani Carli mi raccontò che il grasso serviva agli uomini primitivi per evitare di essere divorati. Se la tigre dai denti a sciabola (come Zabu, quella amica di Ka-Zar, il Tarzan della Marvel) ti azzannava, le rimaneva in bocca il tuo grasso dolce, soffice e saporito e tu riuscivi a scappare tutto sommato indenne, senza che venissero lesi muscoli o organi vitali. Certo sanguinavi un po’. Il grasso era una corazza naturale.

Ma oggigiorno noi ci siamo evoluti, caro mio, Balzani Carli aveva artigliato i miei rotoli laterali, quasi a emulare Zabu, non abbiamo più bisogno di proteggerci, dobbiamo far capire al nostro corpo che non siamo più all’epoca dei tirannosauri e di Jurassic Park.

L’avrei dovuto capire da lì che Balzani Carli non era l’Osservatore, non era nemmeno Ka-Zar, l’eroe della Terra Selvaggia, ma un cazzaro vero e proprio. Forse è per questo che sarà il ministro della Salute nel nuovo governo. Un cazzaro, uno della tredicesima tribù ebraica dei cazzari. Cosa c’entravano i tirannosauri con gli uomini primitivi? E, soprattutto, la corazza a noi serve, ci serve per nasconderci, per non far capire che, in fondo, siamo senza pelle. Noi, che le emozioni le viviamo più degli altri, che se un vecchietto ci guarda di traverso per strada pensiamo che ce l’abbia con noi, senza accorgerci che il suo sguardo è gelato dalla cataratta. Che se due persone litigano, crediamo che sia sempre per colpa nostra, così d’istinto, senza motivo. Che se tuo padre e tua madre si lasciano.

Noi siamo così. Noi siamo i grassi.

Che tutti pigliano per il culo, per il nostro grosso culo sporgente e foderato, pensando che non ci offendiamo a sentirci chiamare Ciccio.

Ciccio, come Ciccio di Nonna Papera.

Ciccio come ciccione.

Quelle parole fendono il nostro grasso come un coltello arroventato e ci arrivano negli anfratti più remoti, nei rifugi più angusti. E poi girano intorno allo squarcio e ci spalmano tristezza. Spatole di angoscia.

Ma noi siamo bravissimi, che la tristezza la afferriamo a mano piena, la tiriamo ai lati, la stendiamo come noodles cinesi e la trasformiamo in un sorriso. Perché noi vogliamo che ci vogliano bene, che amino quel bimbo nascosto nell’alcova dei lipidi. E quando una donna ci si accosta, noi le spalanchiamo la ciccia, tiriamo fuori il nostro cuore magro e glielo affidiamo da subito, con un sorriso commosso, sicuri che lei ne avrà cura, sicuri che lo porterà nel conforto, al caldo, sicuri che lo riempirà di carezze e massaggi, sicuri che poi ce lo schiaccerà sotto un tacco dodici, che imprimerà bene il tallone al centro, nella sabbia e nella cenere, che ci farà soffrire come mai. Così potremo riprendere a mangiare. Senza compromessi. Senza remore. Perché siamo tristi. Perché siamo infelici. Perché siamo depressi. Perché nessuno, in fondo, ci ama.

Io il piccolo Pino me lo sono perso per strada, non le trovo più le briciole che aveva seminato come segnale, ho risucchiato via anche quelle, come la proboscide di un formichiere. Voi siete due deficienti, siete due esaltati, cari i miei Fine Young Cannibals: quello che volete aprire in due è solo l’involucro

di Calafiore, l’immagine di me. Volete che vi dica come finisce questa storia? Federico e Marta mi ammazzano, mi mangiano e diventano grassissimi pure loro, due bomboloni di strutto, beandosi del loro traguardo finale, della loro apoteosi del cibo, grasso con grasso, vita con vita. Che dite, vi piace questo finale? Io di come la facciamo finita francamente me ne infischio, me ne fotto proprio, visto che non sono Rhett Butler. Al limite sono Oliver Hardy. Ollio, che si inventò il camera look: guardava dritto dentro la cinepresa, rivolto al pubblico, quando Stanlio ne combinava una. E tirava dentro lo spettatore, lo agganciava con gli occhi e lo tirava dalla parte sua. Come adesso io sto guardando te, Federico. Ma non ho bisogno che tu stia dalla mia parte. Piuttosto, avrei voglia di mangiare qualcosa.

“Calafiore…”, Marta mi appoggia una mano sulla pancia.

Sta piangendo.

“Calafiore…”, Federico è dietro di lei a capo chino, il mento

da Kurt Cobain a puntare il pavimento.

È un attimo. Afferro la ragazza per le spalle e la sbatto contro il suo fidanzato.

Lo colpisco per bene, perché si affloscia per terra con la chioma azzurra di Marta sparsa su di lui.

E scappo.

Scappo.

Corro.

Le cosce sfregano all’interno, proiettano scintille. Ansimo

e corro.

Come non ho mai corso.

Corro come mai mi hanno visto correre gli asini della Magliana.

Corro come non mi ha mai visto correre mia madre.

Corro come quando mio padre è andato via, corro a inseguire la sua seicento bianca che sparisce per la trazzera polverosa del paese.

Corro come può correre Calafiore.

Pochi passi e già rischio l’infarto. Non sono neanche arrivato alla saracinesca che mi si annebbia la vista.

E non vedo il fardello di cellophane al lato dell’entrata del

magazzino, proprio vicino alla saracinesca.

E non vedo la pozza di sangue rappreso che unge il pavimento.

Scivolo, il piede mi vola in aria. Finisco a corpo morto contro la serranda. Boato, stridore di metallo e ruggine.

Finisco a terra contro l’involucro che si apre a un’estremità. E ne rotola fuori la testa di un giapponese con la bocca mangiata dal sangue e dai denti, gli occhi bianchi spalancati nel mio urlo.

L’urlo mi drizza, mi fa saltare indietro come un pupazzo a molla. Sbatto la nuca contro qualcosa di metallico.

E ora è buio.

Buio vero, stavolta.

Buio letale e finale.

Buio fetale.

(continua in libreria…)

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