“La casa degli uccelli”, romanzo scritto a quattro mani da Laura Bosio e Bruno Nacci e ambientato nella Parigi del 1794, racconta la storia di un gruppo di reclusi volontari, sul cui capo pende minacciosa la ghigliottina – Su ilLibraio.it un estratto

Parigi, 1794. In una zona centrale della città sorge un palazzo sede di un collegio militare. Un edificio come tanti, eppure le ricche sale affrescate da Pigalle e il vasto parco con le voliere, un tempo frequentati da rampolli di buona famiglia, nel giro di pochi mesi si sono trasformati in un carcere. Un carcere con una caratteristica unica: i prigionieri non hanno nessuna intenzione di fuggire. È lì, infatti, che nei mesi del Grande Terrore si nascondono una trentina di aristocratici e facoltosi borghesi, sul cui capo pende minacciosa la ghigliottina, e che devono la loro sopravvivenza unicamente alla Sezione Rivoluzionaria che li tiene in ostaggio – ma al sicuro – in cambio di denaro.

Nelle stanze ormai in decadenza della Casa, come si racconta nel romanzo La casa degli uccelli (Guanda), romanzo scritto a quattro mani da Laura Bosio e Bruno Nacci, gli ospiti ripetono i riti di un mondo che fuori sta sanguinosamente crollando, uniti in un gioco di intrighi e ricatti: baroni, burocrati, principesse sotto mentite spoglie, generali in pensione, vescovi spretati; un ragazzo arrivato con i nonni che trova conforto in una giovane vedova; una ex dama di corte svampita e aggrappata al fantasma di un passato fastoso…

A fare da tramite con il mondo esterno è Bertier, un parrucchiere che frequenta la Casa e che si occupa anche della testa del temibile Fouquier-Tinville, l’implacabile accusatore del Tribunale Rivoluzionario, allora in feroce competizione con Robespierre. Una testa più che mai in bilico, come in bilico sono le vite di tutti, in balia della furia dei tempi, dominati, come spesso i nostri, dall’irrazionalità. Per dirla con le parole di Bertier: “La Rivoluzione ha fatto di noi, anche noi barbieri intendo,degli uomini liberi. E sai cos’è la libertà in questo mondo disgraziato? Prendersi tutto quello che si può”.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

« Quando ti rivedo, Bertier? »

La baronessa Charlotte-Joséphine-Françoise de Manneville si sollevò dalla panchetta di fronte alla specchiera di legno in foglia d’oro, solo leggermente graffiata, l’oggetto più prezioso del boudoir che aveva rimediato nella stanza al secondo piano accanto alla camera da letto, e osservò l’effetto a distanza dell’alta parrucca che Bertier aveva finito di acconciare con fermagli a forma d’uccello, in armonia con gli affreschi della Casa.

« La prossima settimana, baronessa » disse il barbiere, che a sua volta scrutava i riccioli piatti che dalla nuca si arrampicavano a getto d’acqua per trenta centimetri fino all’ala di piume che svettava sulla sommità.

« E secondo te dovrei stare cinque giorni con la stessa parrucca? » si inquietò la baronessa girandosi a piccoli passi sui tacchi color cielo, le mani ad anfora ai lati della pièce d’estomac a fiocchi digradanti che copriva il corpetto.

La parrucca traballò pericolosamente e Bertier si affrettò a puntellarla con le mani.

« Sono tempi difficili » rispose il barbiere, e sorrise mettendo in mostra il dente d’oro che gli dava un aspetto da pirata a riposo, ma chi avrebbe potuto dirlo? Si voltò e cominciò a riunire i suoi strumenti nella borsa di cuoio posata su un tavolino di vetro sbrecciato. Nella Casa tutto era l’ombra di un passato che solo lì stentava a morire.

« Bertier, lo sai che queste parole da noi sono vietate » disse la baronessa, e oscillò sui tacchi malfermi. « E poi, tempi difficili o no, tu sei pagato per disegnarmi due parrucche a settimana, o devo fartelo ricordare in un altro modo? »

Il barbiere, di spalle, sbuffò, chiuse la borsa di cuoio e se la caricò sulla schiena.

« E la prossima volta non tornare con una delle tue parrucche cadaveriche, le voglio color rosa. Mi hai sentita, Bertier? »

Il barbiere mimò un inchino: « Ai vostri ordini, baronessa ». Si avvicinò alla porta, la spinse con un calcio poco riguardoso e si allontanò nel corridoio illuminato da una fiaccola che faceva baluginare gli uccelli in volo sulle pareti sbiadite. Il loro muoversi apparente li preservava da ogni colpo della vita, pensò Bertier con un oscuro presentimento; nell’ipotesi peggiore potevano scolorire o essere presi a martellate da qualche muratore senza per questo soffrire. Ma gli altri? E lui? Gli splendidi uccelli rimasti a lungo chiusi nelle grandi voliere del giardino erano stati liberati un paio di mesi prima da una piccola folla di cittadini esaltati, ma lì dentro, dove la parola cittadino era bandita o usata per scherno, erano finiti altri uccelli molto costosi, e solo il demonio forse li avrebbe salvati.

Mentre Bertier scendeva pensieroso le scale verso il primo piano, dove era atteso dal notaio Magny, una figuretta in abiti dimessi si infilò nel boudoir attraverso la porta ancora aperta per dirigersi subito all’adiacente camera da letto. La baronessa chiuse la porta e la seguì traballante.

« Posso fare qualcosa per Vostra Altezza? » disse con tono riverente muovendosi come una bambola meccanica.

« Potresti toglierti quella ridicola parrucca, per cominciare. »

La donna si sedette sul letto e si sventolò con la mano. « Costretta a fare la cameriera di una falsa baronessa agghindata come una cortigiana di basso rango… Chi l’avrebbe mai immaginata una simile fine per Laure de Fitz-James principessa di Chimay! »

Mentre l’altra, allarmata, si metteva un dito davanti alla bocca per implorare il silenzio, Madame alzò gli occhi al cielo ma non le apparve nessuna schiera di cherubini, solo il soffitto infestato di uccelli che Jean-Baptiste Pigalle aveva dipinto per quella Casa dove era costretta a vivere. Abbassò gli occhi e li puntò sulla bambola imparruccata che la fissava inquieta accanto al letto.

« Entra un po’ meno nella parte, povera sciocca » disse,  « altrimenti finiremo per coprirci di ridicolo o farci scoprire, e non so cosa sia peggio. »

La falsa baronessa si adombrò: « Vi ricordo, Vostra Altezza, che ogni giorno io rischio la vita per Voi con questo travestimento… »

« Tu adori questa messinscena » la interruppe la principessa « e meriti che la tua testa cada prima della mia. Voglio riposare adesso. Intrattieni la gentaglia con cui siamo immischiate fino all’ora della seduta spiritica, anzi vacci tu. Dio ci liberi dai fantasmi. Va’, sparisci. »

La falsa baronessa indietreggiò a piccoli passi, sostenendo come riusciva il nido che si portava in testa, e uscì.

La principessa di Chimay si lasciò cadere sui cuscini. Quanta strada percorsa prima di essere scelta da Maria Antonietta come dama d’onore, sospirò incapace di distrarsi, anche per pochi istanti, dal destino che Dio le aveva riservato. Il mio regno non è più di questo mondo, sorrise amara tra sé e sé. Alle fatiche era stata educata e si era sottomessa con buona volontà. Il privilegio di servire a corte non le aveva risparmiato, all’inizio, di doversi adattare a una soffitta della reggia pur di essere ammessa ad abitare a Versailles, ma aveva fascino, dicevano, era considerata generosa ed elegante e le sue virtù, coltivate con studiata cura, l’avevano premiata. Le virtù… le uniche a cui ci si potesse ancora aggrappare in quel periodo confuso, in quegli anni sanguinari. Quando era entrata nelle grazie della regina, dopo l’allontanamento di Madame Étiquette, la detestabile contessa di Noailles, aveva ricevuto un appartamento di otto stanze con mobilio reale, completo di cucina, concessione rara, e con vista sul parterre di mezzo, sulle fontane, i giardini, le statue che incorniciavano le finestre mandando lunghe ombre sui pavimenti verso il tramonto. Che nostalgia della scimmietta e della cagnolina maltese che abitavano con lei: non si azzuffavano mai, a meno che non dovessero dividersi qualche mandorla o pistacchio. E quanto avrebbe dato per riavere la sua toilette, la bacinella di porcellana dipinta a piccole viole come la brocca dell’acqua, le essenze che coprivano i cattivi odori, mentre nella Casa si conviveva con il fetore, e le scatole di piumini per la cipria, i pettini e le forcine, i nei con cui la scimmietta, per farla divertire, ogni tanto si imbellettava, e il suo clavicembalo… Gli esseri umani no, quelli non le mancavano, nonostante allora non le dispiacessero le visite di cortesia di chi ambiva a essere presentato a Maria Antonietta, non la infastidivano neanche tanto gli elemosinieri che doveva ricevere al risveglio, all’ora delle abluzioni, della messa e delle passeggiate, a volte la facevano ridere persino i commensali che aveva l’obbligo di far sedere con lei ai grandi pasti. L’esperienza però le aveva insegnato duramente che non esistevano esseri umani che non fossero temibili o dannosi per qualcun altro. Julie, l’ultima arrivata al suo servizio, la sua sciocca e vanagloriosa cameriera, era stata l’unica a restarle accanto durante la fuga. Quando le teste avevano cominciato a piovere, Dio condanni all’inferno tutti i boia ora e sempre, avevano vagato per la campagna in cerca di rifugio nelle proprietà dei pochi amici di rango che le rimanevano, ma non c’era posto sicuro per loro, così, rientrate avventurosamente a Parigi, si erano consegnate a quella losca prigione di cui l’amministratore dei suoi beni, il cavaliere di Saint-Jean, l’aveva informata dileguandosi subito dopo con una parte del suo denaro. Ma gliene rimaneva a sufficienza, per fortuna. Naturalmente si era presentata sotto falsa identità. Se Versailles era piena di veleni e avvelenatori, Parigi era infestata di corrotti, spie e tagliagola, e dai primi lei sapeva come mettersi al riparo. Comunque i soldi, ben nascosti nel boudoir, e poi l’avidità dei carcerieri, per il momento proteggevano lei e la sua cameriera. In quella Casa degli Uccelli dove erano prigioniere paganti, se così si poteva dire, tutti la conoscevano come Julie Bertin, femme de chambre della baronessa de Manneville, ed era la farsa più indecorosa a cui si fosse prestata. A una cosa non aveva rinunciato: tra la servitù era la sola a dormire nella camera accanto alla sua « signora » e a sedersi a tavola con gli altri ospiti importanti… Con una mano si sfregò gli occhi. Com’era cambiata di colpo la misura dell’importanza, e benedetto suo marito, il principe, che si era invaghito di lei una sera d’estate ed era morto in battaglia tanti anni prima che il mondo si capovolgesse…

(continua in libreria…)

 

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