Nel romanzo-testimonianza “Cattivo sangue”, l’attrice e conduttrice Elena Di Cioccio racconta a cuore aperto le proprie ferite: dalla scoperta della sieropositività (nascosta per metà della sua vita) al superamento della dipendenza da cocaina, passando per la perdita della madre e del fratello e la chiusura con il padre – Su ilLibraio.it il capitolo “Era mia madre”

“Ero giovane, abitavo con il mio fidanzato in una piccola casa sul Naviglio di Milano, avevo mille sogni nel cassetto e tutta una vita davanti. Ma una mattina mi sono svegliata senza sapere che da lì a poche ore la mia vita sarebbe cambiata per sempre“.

Questa è la premessa di Cattivo sangue (Vallardi), il primo libro di Elena Di Cioccio (in copertina, nella foto di Giorgio Serinelli), attrice e conduttrice radiofonica e televisiva, in cui racconta a cuore aperto le proprie indelebili ferite: dalla drammatica scoperta della sieropositività (nascosta per metà della sua vita) al superamento della dipendenza da cocaina, passando per la perdita della madre e del fratello e dalla chiusura del rapporto con il padre Franz.

In questo romanzo-testimonianza l’autrice, che è stata anche inviata nel programma Le Iene (dove in un monologo ha esposto la sua storia), racconta l’accettazione della propria vulnerabilità e la trasformazione di una condanna in un atto di amore per sé stessa e per gli altri.

Intervista a Vanity Fair, l’autrice ha svelato: “Una psicoterapeuta mi ha spiegato che il trauma è come una ferita che sotto suppura anche se l’hai chiusa. Quindi devi riaprirla, tagliare la pelle, e fa male, ripulire e poi richiudere. La cicatrice resta, e devi accettarla. Il libro racconta molte delle deviazioni intraprese per non aver affrontato i miei traumi”.

Una storia, quella narrata in Cattivo sangue, che veicola un inno alla libertà, al di là di ogni segreto e pregiudizio. Un libro che mette nero su bianco una vita al limite, segnata dalla convivenza con una malattia stigmatizzante e con quei fantasmi interiori troppo spesso schiacciati dietro le apparenze.

“Dopo anni passati divisa tra la paura e la rabbia, non mi sento più in difetto di niente. Io sono questa cosa qui e non voglio più nascondermi. Quando incontro ogni singola persona mi domando se, come e quando dire che sono sieropositiva: lasciando la mia parola scritta ora lo do per fatto, una volta per tutte”, racconta al Corriere della Sera.

Cattivo sangue Elena Di Ciocco

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice Vallardi, pubblichiamo un capitolo:

Copyright © 2023 Antonio Vallardi Editore, Milano
Copyright © Elena Di Cioccio
Edizione pubblicata in accordo con Donzelli Fietta Agency srls

Era mia madre

Era il giugno del 1993, avevo 18 anni e mi trovavo nel pieno degli esami di maturità. Da un paio di anni vivevo in una stanza tutta mia, nella casa di Milano 3 con mia madre e suo marito.

Un pomeriggio chiamai da un bar l’ufficio dei miei per avvisare che sarei partita per Modena. Avevo trovato un passaggio e sarei andata a vedere il concerto dei Guns N’Roses.

La voce antipatica dell’assistente del mio patrigno mi annunciò fredda:

«C’è stato un incidente, tuo fratello Giacomo è in rianimazione, a Varese. Raggiungi i tuoi, ti spiegheranno loro».

I biglietti per Axl and Co. li conservo, ancora intatti, con la matrice attaccata, in mezzo ai ricordi brutti.

Giacomo era il figlio nato dal secondo matrimonio di mia madre, aveva poco meno di 3 anni quando una ciliegia andata di traverso gli si era incastrata nella trachea, soffocandolo in pochi minuti. A nulla servirono la corsa all’Ospedale di Varese e gli sforzi di mamma e consorte che chiamarono medici da ogni parte del mondo con la speranza di riuscire a salvarlo. Il piccolo Giacomo, ormai intubato, restò in coma per circa una settimana prima che il suo corpicino, pompato a forza dai respiratori, smettesse di dare segni vitali. Morte cerebrale. Strazio totale.

Il 5 luglio 1993 Giacomo ci lasciava per sempre.

Nessun genitore dovrebbe mai sopravvivere ai propri figli, è innaturale. Dovresti partorirli, crescerli e andartene sottoterra prima che i loro capelli diventino bianchi. La rabbia, il dolore e l’impotenza davanti a una morte così assurda, dolorosa per tutti noi, sono stati fatali per la parte di famiglia coinvolta, che non si è mai ripresa dall’accaduto.

Nel tempo, complice il riserbo delle mura di casa, si sono sommati lentamente strati di rancore, disperazione e infelicità che ne hanno segnato irrimediabilmente il destino.

Fuori scintilliamo, dentro inceneriamo.

Una mattina di maggio del 2016, invece, quasi quindici anni dopo quella della bomba ricevuta all’Humanitas, c’è stata un’altra funesta mattina della mia storia. Era un lunedì. Il weekend era trascorso benissimo: insieme ad amici avevamo festeggiato il compleanno di un’amica, con un pranzo sul suo terrazzo baciato dal sole, davanti al mare di Ostia. Avevo flirtato un sacco con uno che mi piaceva, e quella settimana avrei iniziato i preparativi per il mio viaggio-studio negli Stati Uniti, per frequentare l’Acting School di Susan Batson. La terza stagione di Squadra mobile era nell’aria, avevo altri progetti in cantiere ma fino a settembre sarei stata ferma. I provini potevo farli anche a distanza, quindi ero libera di andarmene negli USA per qualche mese.

Mi svegliai più tardi del solito, erano circa le 9.00 del mattino quando, acceso il telefono, un suono tritonale mi avvertiva che ero stata cercata con insistenza.

AA Ro. Ho chiamato alle 8.00 del 16.05.2016. Info su costi e condizioni di questo servizio…

AA Cinzia. Ho chiamato alle 8.15 del 16.05.2016. Info su costi e condizioni di questo servizio…

AA Babbo. Ho chiamato alle 8.30 del 16.05.2016. Info su costi e condizioni di questo servizio…

Usavo registrare in rubrica i numeri più importanti con una doppia AA maiuscola prima del nome. Il rating di AA, che li poneva all’inizio dell’agenda, e quindi immediatamente rintracciabili, era riservato esclusivamente alla mia famiglia: madre, padre, sorella, zia, patrigno. Anteponevo una A singola al nome degli amici del cuore e lasciavo tutto il resto del creato a un naturale ordine alfabetico.

Quel tris di AA aveva più o meno lo stesso orario, perché? Un’intuizione macabra mi freddò lo stomaco, pensai: L’ha fatto! Questa volta ci è riuscita.

Il 16 maggio 2016 Anita Ferrari, mia madre, è stata trovata morta suicida immersa nella grande vasca da bagno della palestra del marito, nella nuova ala della loro splendida megavilla di Milano 3. Come tutte le Marylin del mondo, mamma ha bevuto tutte assieme quelle dannate goccine accompagnata dal pianto di cera di candele inermi, che aveva sistemato vicino alla vasca, e dagli sguardi fissi di noi figli.

Delorazepam, Xanax, Minias, Trittico, Tavor, Valium, Gardenale, Zoloft: un mix di quelle sue maledette medicine che non faceva nessuna fatica a procurarsi – e i cui racconti facevano tanto ridere nei backstage dei concerti, alle cene o in spiaggia a Porto Cervo –, ma che l’avevano addormentata per sempre.

«Anita? Glu glu glu, goccine e via. C’è una farmacia in casa!»

Tutte quelle goccine che giravano per casa io le chiamo arsenale, non farmacia. Minuscole armi di distruzione privata su cui non c’è proprio un cazzo da ridere. Perché non mi hai dato retta, mamma? Perché non sei venuta a stare un po’ con me a Roma?

Mia madre aveva già tentato il suicidio altre volte, e le ragioni, rimaste sorde alle orecchie dei più, le aveva affidate a supporti di fortuna, ogni volta diversi: battute sulla tastiera del computer e poi organizzate in un file dove si era presa la briga di scrivere la memoria della sua vita e consegnarla al suo avvocato di fiducia; scritte a penna su fogli strappati da vecchie agende e ritrovati accartocciati tra le sue cose; o ancora sulle sue candide tele dove aveva impresso le sue grida di dolore.

Le immagini di queste tele restano indelebili nella mia memoria. Sei un Mostro vigliacco aveva scritto vergando un quadro bianco che attendeva di diventare uno dei suoi famosi panorami del mare sardo che tanto amava dipingere.

L’ultimo tentativo di uccidersi, il più eclatante, era avvenuto solo un paio di anni prima, nel gennaio del 2014, e la sua morte era stata scongiurata dall’arrivo delle Forze dell’Ordine che lei stessa aveva chiamato in un attimo di lucidità, nel tentativo estremo di salvarsi la vita. Leggere il verbale di quel salvataggio e guardare gli scatti dei rilevamenti fu orribile allora e resta orribile oggi, mentre sfoglio il fascicolo.

La dinamica del disastro l’aveva affidata lei stessa a una e-mail indirizzata ai membri della famiglia, alle amiche più care e al centralino dell’ufficio del marito: Questa notte ho tentato il suicidio, ho ingoiato 100 pastiglie di Minias e 100 di Zoloft, ho aperto il gas. Nulla è successo. Ora mi taglierò le vene. In casa di mia madre e affidata alle sue cure viveva anche sua sorella, la mia adorata zia Elida, rimasta disabile in seguito a un incidente diversi anni prima. Così Anita continuava nella e-mail: Porterò con me mia sorella perché sono certa che finirebbe in un istituto.

Poi un passaggio agghiacciante. Non voglio funerali. Il mio testamento è depositato qui. Questo è il solo modo per sfuggire ai massacri… alle offese… vi prego di essere oneste e di dire tutto quello che avete visto e sentito in questi anni. Aiutatemi a far trionfare la verità.

A seguito di quel tentativo di farla finita, fu ricoverata in TSO per oltre un mese e restò per i successivi due mesi in un centro di riabilitazione. Quando ne uscì era provata ma un filo più convinta di dover fare quei cambiamenti di vita che le erano stati suggeriti dagli stessi psicologi. Purtroppo, e a dispetto di ogni previsione, pur continuando terapie e cure farmacologiche, quei cambiamenti non li fece mai. Riprese la sua vita di sempre nella grande villa in culo al mondo. Tutto tornò come prima, come se nulla fosse successo.

Mamma è a casa, fine della storia.

Non ne parlammo più.

E la ferita aperta, blandita dall’agio economico ma lasciata infetta, continuò a suppurare nell’ombra senza guarire mai. E prima o poi, come una non morta, sarebbe tornata a chiedere aiuto.

Così mamma aveva deciso di nuovo di porre fine al suo tormento. E questa volta sarebbe andata fino in fondo, organizzando perfettamente la sua uscita di scena. Aveva scelto il giorno giusto, quella domenica notte, quando sarebbe stata sola: il marito, sempre in tour al seguito dei suoi artisti, si sarebbe trovato abbastanza lontano da non poter prendere neppure un aereo all’ultimo minuto. Aveva stabilito che sarebbe successo dopo cena, quando lo staff di servizio della villa smontava il turno. Aveva predisposto tutto perché non aveva alcuna intenzione di fermarsi, voleva solo morire.

Le risorse che la disperazione muove sono infinite come la disperazione stessa, e la mia passione per le quattordici stagioni di CSI-Las Vegas ha fatto il resto davanti al fatto compiuto. I passaggi follemente lucidi della sua preparazione questa volta mi sarebbero stati chiari nei giorni successivi, quando, ipercinetica in cerca di conforto, ho messo assieme tutti i pezzi, analizzando la situazione, raccogliendo dati, cercando nella sua posta, nelle e-mail, aprendo la cronologia del suo computer e hackerando, grazie all’aiuto di amici nerd, cellulare e chat di WhatsApp. Così i suoi ultimi mesi di vita prendevano un senso nuovo.

All’ultima cena di Natale, tra una terrina di prestigioso paté di fegato d’oca e un’insalata russa, mia madre mi aveva allungato con nonchalance una busta chiusa, come fosse un tovagliolo.

«Dentro c’è il mio testamento. Non lo voglio lasciare in casa perché non so che fine farebbe. Lo puoi conservare tu per me?»

Mi innervosii parecchio. Mal sopportavo questa pratica, comune a ogni ramo allargato della famiglia, di consegnarmi la responsabilità di un segreto importante da tacere a tutti gli altri, quel tipico «Sssh, lo sai solo tu, non dirlo a nessuno». Si tratta di manipolazione, soprattutto se a compierla sono gli adulti, che mi faceva sentire speciale nei confronti dell’uno e colpevole nei confronti dell’altro.

Compiacente e frustrata come al solito, dissi a mia madre che avrei messo la busta in cassaforte così com’era, senza leggerla, e che poi non ne avrei voluto sapere più nulla. Ero stanca di questa strisciante minaccia di sciagura imminente.

«Non sei curiosa di aprire per sapere quello che ho scritto?», mi chiese.

«No», risposi. «Qualsiasi cosa ci sia scritto dentro, per me, questa busta non esiste. Non mi tirare più in mezzo a queste dinamiche. Io non ci posso fare più nulla. Ti chiedo solo una cosa, mamma, qualsiasi cosa tu abbia deciso di fare, non condannarmi a prendere il tuo posto per sistemare le cose. Non è la mia storia.»

Avevo accettato tra i sensi di colpa e l’impotenza di non poter fare più nulla per lei.

Forse, come tutti, avevo anch’io ignorato una delle sue ultime richieste di aiuto, un segnale d’allarme in fondo così esplicito? Aveva detto «il mio testamento», e cos’altro è un testamento se non il definitivo lascito di chi sente, o sa, che la sua sabbia nella clessidra del tempo sta per finire?

Potrei dire di aver sottovalutato, di aver creduto che giocare con la morte fosse diventato il suo modo di vivere tra la disperazione e il desiderio, forse inconscio, di tenere costantemente all’erta l’attenzione sulla sua infelicità. Ma la verità è che stare accanto al dolore irredimibile di chi si ama diventa una routine, perché ci si abitua a tutto, anche all’ansia perenne di svegliarsi una mattina e sapere… che il peggio è accaduto. E la rassegnazione all’impotenza è arrivata dopo anni e anni, durante i quali ho sperato e provato in tutti i modi a mitigarlo, quel dolore. Con le buone e con le cattive. Rincuorando e litigando, parlando, urlando e piangendo. Poi arriva la resa, con la consapevolezza che nessuno può vivere la vita di un altro. Neanche se quell’altro è tua madre.

E mia madre aveva già deciso: quella volta niente l’avrebbe fermata. Come i tossici che non puoi salvare quando scelgono di iniettarsi la dose che risulterà letale.

Domenica 15 maggio 2016 alle ore 18.21 aveva ripostato su Facebook un video tristissimo dal titolo Mamma sei diventata un angelo, che si apriva con un riquadro: Una rosa per ogni mamma volata via. Mi ricordo che il tono drammatico di quel post, già pubblicato qualche giorno prima, l’8 maggio, in occasione della Festa della Mamma, mi aveva dato noia, così come mi davano sui nervi tutti quei post passivo-aggressivi, tipo Capiamo il valore delle cose solo quando queste ci vengono tolte. Mannaggia, no! Se stai male, se vuoi che cambi qualcosa nella tua vita, non puoi affidare il tuo messaggio alla bacheca di Facebook, sperando che il destinatario lo intercetti, ne venga colpito e corra da te sulle ginocchia al grido di «Scusami, ho capito, da oggi ti giuro che sarà tutto diverso! Ti amo».

Avevo pensato che, di nuovo, mia madre avesse scritto il post drama queen per ricordare la nonna, sua mamma. E invece no. Parlava di se stessa, nella sua contorsione espressiva stava annunciando che lei, di lì a poco, sarebbe stata una di loro, una mamma volata in cielo. E lei, da diversi anni, si percepiva ormai solo come mamma e non più come donna.

La cronologia del suo computer mi raccontava che il pomeriggio di quel 15 maggio 2016 lo aveva in parte trascorso seduta alla sua scrivania, visitando siti dedicati al suicidio. Aveva letto istruzioni su quale fosse la giusta quantità di sonniferi da assumere per uccidersi e su come provare meno dolore nel giorno fatidico. Un bagno caldo, ho letto in una delle pagine in questione, era indicato come soluzione perfetta per un passaggio morbido dalla vita alla morte. Metteteci dei profumi, accendete le candele, vi addormenterete senza rendervene conto, si leggeva sulla homepage. Dio santo, come cazzo si può pensare di scrivere un tutorial del genere?

Mi fa impazzire immaginare mia madre che inforca gli occhiali, alza un poco il mento per seguire meglio questa ricerca mortale sul web, invece di prendere un biglietto aereo e raggiungermi a Roma per scorrazzare in scooter alla ricerca della migliore carbonara capitolina. Era una cosa che facevamo spesso quando veniva a trovarmi. Caricavo mia madre sulla moto e ce ne andavamo in giro per città a fare le turiste. Quando smetteva il ruolo rigido di direttore finanziario, mia madre era superbuffa, in ogni suo gesto. Era una macchietta, sempre fuori tempo, fuori luogo, una bambina stralunata nel corpo goffo di una sessantenne con dei capelli improbabili. Era sorda da un orecchio e quando non capiva bene le cose, strafalcionava con gusto comico il senso delle cose, esplodendo poi in una risata travolgente. Mi faceva tanto ridere, mia madre, quando si dimenticava di tutto il resto. Poteva ridere cinque minuti da sola senza che nessuno ne capisse il perché. Le partiva la ciavatta del riso, come si dice a Roma, e non si fermava più.

Saliva sulla mia moto a peso morto, proprio come fanno le signore un po’ attempate che non hanno mai guidato una due ruote, e così una volta siamo volate a terra con tutto lo scooter. Era successo dopo aver messo il piede sinistro sulla pedivella per issarsi: al momento di aprire la gamba destra per inforcare il sellino si era resa conto che i pantaloni troppo stretti le impedivano il movimento, e in quella posizione assurda aveva iniziato a ridere perdendo l’equilibrio. Per non cadere, mi si era aggrappata con tutta la sua forza al mio braccio sinistro, tirandomi giù insieme a 200 chili di moto! Ci eravamo letteralmente pisciate sotto dalle risate, rotolandoci in mezzo alla strada. Ridevamo così tanto che non riuscivamo nemmeno a rimettere in piedi lo scooter.

Per non parlare di quella volta, sul raccordo anulare, quando alla stazione di servizio, in meno di due minuti, il tempo di andare in bagno, mia madre aveva combinato uno dei suoi disastri. La causa: la sua leggendaria distrazione. Quando risalii in auto la trovai che guardava l’orizzonte, immersa nei suoi pensieri. Feci per mettere in moto, ma la macchina non partiva.

«Che succede?», chiese.

«Non lo so, mamma, adesso capisco», risposi. Provo e riprovo, niente. «Porca miseria, ma cosa può essere successo?» Non volendo scaricare la batteria, non insisto. «Mamma, ma hai fatto il pieno mentre ero in bagno che eravamo a secco?»

«Certo, per chi mi hai preso? Mica sono scema, guarda ho fatto 75 euro di benzina!», dice mostrandomi la ricevuta del self-service.

«Mamma, stai dicendo benzina intendendo il pieno, vero? Non avrai messo la benzina nella mia macchina a diesel?»

«Ah, perché è un diesel?», risponde lei serafica.

«Dimmi che non hai messo la verde, ti prego…»

«… E non lo so cosa ho messo… Poi, scusa, tu hai detto siamo senza benzina e io quella ho fatto!»

«Ma, mamma, è un modo di dire! Mica dici sono senza diesel, che poi suona anche male! Non hai visto che il bocchettone del serbatoio era enorme?»

«Oh, senti, tu hai detto benzina e io quella ho fatto. Dovevi essere più specifica! Ho fatto anche quella buona, con gli ottani, che costa di più. La prossima volta te lo fai tu il pieno!»

Quanto mi manca ridere di e con mia madre.

Tornando al giorno del suo suicidio, tra le varie istruzioni che deve aver letto in giro nella rete, c’era anche quella su come redigere il testamento perfetto, insieme al monito di ricordarsi di lasciare qualcosa di scritto alle persone care che di sicuro soffriranno la vostra dipartita. Mannaggia al demonio, vi odio tutti grandi teste di cazzo che avete scritto ’sta roba! Mi bruciano le mani e vi vorrei tirare dei pattoni sulla faccia, incommensurabili imbecilli della tastiera!

Fortunatamente un po’ alla volta questa merda è sparita da internet. Oggi se scrivo come suicidarsi sul motore di ricerca, il mio algoritmo mi offre come primo risultato una grande scritta che recita: POSSIAMO AIUTARTI? Parla subito con qualcuno oggi stesso. Chiama il numero 06… o clicca qui per ricevere aiuto e assistenza in caso di rischio suicidio. Capisco che molto deve essere cambiato in questi ultimi anni, dove i claim che invitano a chiedere aiuto in caso di bisogno appaiono sul web, all’inizio delle serie tv e in testa a ogni racconto in cui qualcuno in difficoltà ha fatto una brutta fine perché forse non è stato ascoltato con cura.

Mamma si era organizzata alla perfezione. Presagendo quello che sarebbe accaduto in seguito e perché fosse inattaccabile in sede di controversia, aveva redatto a mano un nuovo testamento completo ed esaustivo, lo aveva sigillato in una busta indirizzata all’unica persona che, una volta scoperta la sua morte, era certa sarebbe arrivata prima di tutti, mia sorella, scrivendo sopra alla busta Raccomandata a mano per. Le spiegazioni sul motivo del suo gesto e le istruzioni alle figlie, invece, le aveva scritte in una lettera stampata al computer e firmata a mano, dopo il commiato: Vi voglio tanto tanto tanto bene mamma. Un tanto per ciascuna di noi.

Dopo la morte di Giacomo era infatti arrivata un’altra bambina. Nella lettera parlava del peso delle mortificazioni subite che paragonava a macigni, del senso di colpa che la divorava per aver impostato la sua vita intorno alla chimera di un amore non ricambiato, del terrore che aveva di perdere le sue facoltà mentali e finire male come sua sorella disabile. Ci chiedeva in maiuscolo di RISPETTARE le sue volontà: non voleva nessun funerale e nessuna sepoltura. Voleva rose rosa sulla bara, ma solo quelle di noi figlie. Qualsiasi altra rosa, scriveva, sarebbe stata un insulto, soprattutto se posata da chi non me ne ha mai regalate in vita. Proseguiva invitandoci a volerci bene, ad andare d’accordo e a sostenerci tra sorelle. Ci spiegava il ragionamento che l’aveva guidata nell’assegnazione dei suoi beni. Dava per scontato che avremmo fatto il funerale per nostra zia, che anche questa volta aveva deciso di portare con sé nel viaggio verso la lunga notte. Ironia della sorte, mia zia è sopravvissuta due volte di fila alla furia omicida di mia madre, nonostante le avesse tagliato le vene prima di immergersi nel suo bagno di morte. Fatico a immaginare il terrore che deve aver provato quella povera donna invalida, immobilizzata, con le vene aperte e quell’odore infame simile alla ruggine che le aleggiava attorno.

Trovare le parole giuste per raccontare di questo suicidio è impegnativo, ma per quanto sia duro l’esercizio, l’immaginazione mi lascia lo spazio per sottrarre e aggiungere in accordo con la mia sensibilità. E così, rileggendo quello che ho scritto, mi accorgo di aver narrato l’avvenimento un po’ ovattato, quasi drammaticamente più romantico di quello che è stato nella realtà. Come illuminato dalla luce calda della mia fantasia che rende più belli i colori e meno netti i contorni, sfumando la cupezza del ricordo.

È nella freddezza delle immagini scattate dagli agenti in occasione del ritrovamento del cadavere che tutta questa vicenda esplode nella sua crudezza. Le ho scrutate una per una in cerca di quei dettagli che danno davvero voce a chi ha scelto di zittirsi per sempre.

La stanza era spoglia e fredda, nessuna candela profumata, nessun fiore, nulla di scenograficamente rilassante come il sito web aveva tanto raccomandato di fare. Ma morire non è come al cinema, si muore e basta, senza nessuno che ti batte il ciak. Il corpo nudo era a faccia in giù e affiorava a filo d’acqua che il sistema anti fuoriuscita della vasca aveva mantenuto a un livello costante, nonostante il rubinetto aperto. Il volto affogato spariva sotto ai capelli che galleggiavano come alghe marine. Dall’acqua spuntava solo un accenno delle sue spalle, delle natiche e dei gomiti. Sul muro, che sovrastava il lato lungo della vasca, fiammeggiava il rosso scuro di una frase scritta con il suo stesso sangue: I soldi sono salvi.

Tutto intorno c’erano blister di pastiglie, contenitori di gocce, siringhe, pezzi di carta, fazzoletti usati e il grosso coltello da cucina dal corpo argentato con cui mamma si era procurata diverse ferite da taglio sulle braccia e sui polsi. I lembi dei tagli avevano quell’aspetto gommoso di quando la carne resta troppo tempo a mollo.

A che ora deve essere successo? Difficile da definire, dal momento che quel filo di acqua calda ha continuato imperterrito a scorrere, mantenendo stabile la temperatura. Su una bianca sedia di design accanto alla vasca aveva disposto quattro quadretti con le foto dei suoi amori: Giacomo, le mie sorelle, io e il suo cane Kobu. Uno di quei quadretti glielo avevo regalato il Natale precedente: era una bella foto di noi quattro femmine sorridenti, una madre e le sue tre figlie in costume da bagno, in Sardegna. Ne avevo fatto incorniciare quattro copie, una per ciascuna, perché fossimo sempre assieme anche se lontane. Era una foto che le piaceva molto.

Poi la sequenza di immagini scattate dagli agenti si animava ritraendo le persone autorizzate a repertare la scena girando il corpo per attestarne il decesso. La smorfia sofferta che mamma aveva sul volto completava quella scena sconcertante di un corpo richiuso su se stesso, più simile a un feto adulto che alla persona che era stata.

La lucidità con cui ha organizzato la sua morte mi ha lasciato sgomenta. Ho sondato ogni aspetto del suo mondo per trovare quello che forse era sempre stato lì. Ho riletto i suoi scritti, i suoi appunti, le sue lettere, ho riguardato decine di fotografie, rivisto i suoi filmati per cercare negli sguardi il non detto. Si dice che tutto sta nei dettagli, ma alcuni dettagli io ho deciso di lasciarli andare. Quando forzammo il suo cellulare, dentro c’era tutta lei: c’erano le ultime chiamate fatte, quelle ricevute e quelle rosse non risposte. Le foto nostre, delle amiche e dei suoi fiori, gli stucchevoli video di «Buongiornissimo» che mi spediva ogni due per tre, la casella di posta elettronica. C’erano tutti i messaggi sms. Tutto era rimasto intatto. Mamma aveva maneggiato solo la chat di WhatsApp prima di addormentarsi: tra tutte le sue conversazioni digitali, qualcosa era stato cancellato. Pur avendo i mezzi per farlo, non ho voluto indagare oltre, rispettando quello che mamma aveva deciso di fare. Cancellare.

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Elena Di Cioccio, nella foto di Giorgio Serinelli

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