Un romanzo che narra una storia di resilienza femminile di fronte alla perdita e al sacrificio del cambiamento: su ilLibraio.it un capitolo da “Come il fiume”, debutto narrativo di Shelley Read
Come il fiume, in libreria per Corbaccio nella traduzione di Maria Elisabetta De Medio, è presentato dall’autrice, l’esordiente Shelley Read, come “una storia di amore, sofferenza e rinascita”.
Un romanzo che narra una storia di resilienza femminile di fronte alla perdita e al sacrificio del cambiamento. Read racconta infatti che cosa significa condurre la propria vita come se fosse un fiume, raccogliendosi e scorrendo, e trovando sempre una via d’uscita.
La trama del romanzo porta nel 1948 a Iola, nel Colorado. Victoria Nash è una ragazza di diciassette anni che aiuta la famiglia a coltivare le pesche sulla riva del fiume Gunnison. In una luminosa giornata autunnale, uno sconosciuto dagli occhi scuri come un’ala di corvo si ferma per chiederle la strada. Il modo in cui lei sceglie di rispondere segnerà il destino di entrambi: è un incontro, il loro, che accende tanto la passione quanto il pericolo.
E quando la tragedia li colpisce, Victoria decide di abbandonare la vita che conosce e di fuggire in montagna per proteggere se stessa e il segreto che porta con sé. Col passare delle stagioni riuscirà a trovare la forza per ricostruirsi e andare avanti anche grazie all’amicizia con donne forti e coraggiose come lei, seppure diversissime.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Uno
1948
Non era questo gran che.
Non a prima vista, quantomeno.
«Scusa» disse il giovane, toccandosi la visiera del lacero berretto rosso con il pollice e l’indice imbrattati. «Da questa parte per la pensione?»
Tutto qui. Una domanda banale da uno straniero sudicio che camminava su Main Street proprio appena arrivai all’incrocio con North Laura.
Aveva la salopette e le mani annerite dal carbone, che lì per lì pensai fosse grasso per assi o terra dei campi, malgrado lo sporco fosse troppo scuro per entrambe le ipotesi. Le guance erano impiastricciate. La pelle abbronzata risplendeva nei sol- chi lasciati dal sudore. Da sotto il berretto spuntavano capelli dritti e neri.
La giornata d’autunno era cominciata come di routine, con il porridge e le uova che avevo servito agli uomini per colazione. Non avevo notato nulla di diverso mentre sistemavo la casa e mi prendevo cura dei docili animali nei loro recinti, riempivo due ceste di pesche tardive all’aria fredda del mattino ed effettuavo le consegne giornaliere trainando lo sgangherato carretto con la mia bicicletta per poi tornare a casa a preparare il pranzo. Ma ora so che lo straordinario si nasconde dietro l’ordinario, come il mondo profondo e misterioso sotto la superficie del mare.
«Da questa parte per tutto» risposi.
Non volevo fare la spiritosa e neppure attirare la sua attenzione, ma capii dal lieve sorriso che gli spuntò sulle labbra che la mia risposta lo aveva divertito. Mi fece attorcigliare le viscere, guardandomi in quella maniera.
«È un paesino proprio minuscolo, intendo» specificai, per mettere in chiaro che non ero un tipo che i ragazzi notavano o a cui si fermavano a sorridere agli angoli delle strade.
Gli occhi dello straniero erano scuri e lucenti come un’ala di corvo. E buoni – questo è ciò che ricordo di più di quegli occhi, da quella prima volta fino all’ultima –, una bontà che sembrava sgorgare da dentro di lui e traboccare come un pozzo troppo pieno. Mi studiò un momento, continuando a sorridere, poi si toccò di nuovo la visiera del berretto e proseguì il cammino verso la pensione dei Dunlap in fondo alla strada.
Era vero che questo unico marciapiede dissestato conduceva ovunque. Oltre alla pensione, c’erano lo Iola Hotel per i facoltosi e la taverna sul retro per gli ubriaconi; la pompa di benzina Standard, il ferramenta e l’ufficio postale di Jernigan; il bar che profumava sempre di caffè e bacon; e il piccolo supermercato di Chapman, con il banco gastronomia e pettegolezzi a volontà. Più avanti a ovest c’era il pennone alto tra la scuola che avevo frequentato e la chiesa rivestita di assicelle bianche dove la nostra famiglia si presentava ogni domenica, ripulita e vestita di tutto punto, quando mia madre era ancora viva. Poco oltre, Main Street scendeva bruscamente a picco lungo il pendio di colle come un punto dopo una frase breve. Andavo nella stessa direzione dello straniero – per trascinare mio fratello fuori dalla baracca dietro Jernigan dove stava giocando a poker – ma non mi andava di stargli alle calcagna.
Mi fermai un attimo lì, all’incrocio tra le due strade, e mi riparai gli occhi dal sole pomeridiano per osservarlo mentre si allontanava. Camminava piano, distrattamente, come se la sua unica meta fosse il passo successivo, con le braccia che dondolavano sui fianchi e la testa che pareva non tenere il ritmo e restare leggermente indietro. Le bretelle della salopette premevano sulla maglietta bianca e logora. Era snello, con le spalle muscolose di un bracciante.
Come se percepisse il mio sguardo, all’improvviso si voltò e mi rivolse un sorriso, abbagliante sul suo viso sporco. Sussultai per essere stata sorpresa a guardarlo. Un brivido di calore mi solleticò il collo. Si toccò di nuovo il berretto, si voltò e continuò a camminare. Pur non vedendolo in faccia, ero quasi certa che stesse ancora sorridendo.
A posteriori, so che quello fu un momento decisivo. Perché avrei potuto girare sui tacchi e ripercorrere North Laura verso casa per preparare la cena, avrei potuto lasciare che Seth tornasse alla fattoria di sua spontanea volontà ed entrasse dalla porta barcollando davanti a papà e zio Og, vedendosela brutta. Avrei potuto almeno attraversare e camminare sull’altro lato della strada, mettendo qualche automobile e una fila di pioppi ingialliti tra i nostri due marciapiedi. Invece rimasi lì, e questo fece tutta la differenza del mondo.
Avanzai di un passo, lentamente, poi di un altro, intuendo il significato di ogni scelta di sollevare un piede, allungare la gamba e abbassare il piede a terra.
Nessuno mi aveva mai parlato dell’attrazione e di come funzionava. Ero troppo giovane quando mia madre era morta per aver appreso quei segreti da lei, benchè dubiti che anche più tardi li avrebbe condivisi con me. Era una donna chiusa e perbene, estremamente devota a Dio e ottemperante alle aspettative. Da quanto ricordo, voleva bene a me e a mio fratello, ma mostrava il suo affetto solo all’interno di rigidi parametri, educandoci nel timore di come ce la saremmo cavata il giorno del giudizio. Mi era capitato di vedere il suo spirito ardente, solitamente celato, scatenarsi sui nostri fondoschiena con lo scacciamosche di gomma nera, o liberarsi con le lacrime che provvedeva in fretta ad asciugare quando si alzava in piedi dopo la preghiera, ma non l’avevo mai vista baciare mio padre o anche solo abbracciarlo. Anche se i miei genitori gestivano insieme e con efficienza la famiglia e la fattoria, non percepivo tra loro il sentimento che in genere caratterizza il legame tra un uomo e una donna. Per me, questo territorio misterioso non era mappato.
Tranne un caso: stavo guardando fuori dalla finestra del salotto nel cupo crepuscolo autunnale, poco dopo aver compiuto dodici anni, quando lo sceriffo Lyle era sceso dalla sua lunga automobile bianca e nera parcheggiata sulla ghiaia bagnata del vialetto e si era avvicinato esitante a mio padre, in cortile. Attraverso il vetro appannato dal mio respiro avevo visto papà crollare lentamente in ginocchio proprio lì, nel fango fresco di pioggia. Stavo aspettando che mia madre, mio cugino Calamus e mia zia Vivian tornassero dopo aver consegnato le pesche oltre il passo che conduceva a Canyon City. Erano in ritardo di ore. Anche mio padre li aspettava, così in ansia da aver trascorso l’intera serata a rastrellare le foglie fradicie che di solito lasciava a terra a compostarsi durante l’inverno. Quando il peso delle parole di Lyle lo aveva piegato, il mio giovane cuore aveva compreso due immense verità: che la parte mancante della mia famiglia non avrebbe fatto ritorno a casa e che mio padre amava mia madre. Non mi avevano mai parlato d’amore, non lo avevano mai manifestato, ma quel giorno capii che lo avevano conosciuto, con la riservatezza che era loro propria. Avevo imparato dalle loro discrete interazioni, e dagli occhi asciutti con cui poco dopo mio padre era entrato in casa a comunicare la notizia a me e a Seth con un tono triste ma pratico, che l’amore è una faccenda privata, che riguarda soltanto due persone. Appartiene a loro e a nessun altro, come un tesoro segreto, come una poesia intima.
Oltre a questo non sapevo nulla, soprattutto non sapevo come cominciava una storia d’amore, cos’era quell’inspiegabile attrazione verso un’altra persona, perché alcuni ragazzi ti passavano accanto senza che te ne accorgessi mentre uno in particolare scatenava un’attrazione inconfutabile come la forza di gravità, e da quel momento in poi non conoscevi altro che il desiderio.
(continua in libreria…)
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