I vizi privati di una provincia grottesca, esilarente, miserabile: Francesco Permunian torna con il romanzo “Elogia dell’aberrazione” – Su ilLibraio.it il racconto inedito “Sotto il cedro del Libano”
“In Permunian sembra di riconoscere ancora intatto il potere della scrittura letteraria come era inteso dai grandi maestri moderni, da Kafka a Céline a Beckett”. Parola di Emanuele Trevi.
Francesco Permunian, classe ’51, vive e lavora da molti anni sul lago di Garda. Ha pubblicato diversi libri, tra cui Costellazioni del crepuscolo (Il Saggiatore, 2017), Sillabario dell’amor crudele (Chiarelettere, 2019, Premio Dessì) e Giorni di collera e annientamento (Ponte alle Grazie, 2021).
Ora lo scrittore (di cui, a seguire, pubblichiamo il racconto inedito Sotto il cedro del Libano) torna in libreria per Ponte alle Grazie con Elogio dell’aberrazione. Protagonista del romanzo la storia perversa di Tito Maria Imperiale, giornalista del gardesano, e attorno a lui altre aberrazioni, depravazioni, vizi privati di una provincia grottesca, esilarante, miserabile.
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Tito Maria Imperiale, meglio noto come el sior Titìn per via della bassa statura, vicecapocronista e firma illustre dell’Eco del Garda, si apre ai lettori rivelando le proprie ossessioni private, a cominciare dalle perversioni condivise con la moglie che l’ha da poco abbandonato. Nel farlo, svergogna il mondo provinciale che lo circonda: un mondo di egoismo e vacuità, noia e dissipazione, in cui tutti nascondono una depravazione e l’unica smorfia etica è un moralismo ipocrita; in cui c’è chi gira un sequel del Salò di Pasolini nei luoghi reali della Repubblica Sociale e chi, nostalgico, insegna agli eredi come inni nazionali Giovinezza e La Vandeana.
Francesco Permunian ci trascina di nuovo nel suo teatrino dell’assurdo affollato di marionette farneticanti. L’aberrazione e la turpitudine diventano in questo Elogio neutre manifestazioni di una società priva di rotta, in cui non pare concepibile trovare un indirizzo né un senso che sorpassino l’istante. Nelle sconclusionate e grottesche avventure degli sgangherati protagonisti, riportate da un narratore non sempre affidabile, alla satira esplicita e asperrima si uniscono un’ironia più sottile e un’amarezza di sfondo…
Sotto il cedro del Libano
– Perché pensi ancora a lei, che non ti pensa più?
– Perché resti ancora qui con me, anche se continui a pensare a lei che già ti ha dimenticato?
– Perché lei – sempre così lontana e ormai ridotta in polvere – sempre ti è più vicina di me?
Queste le tre domande, le solite insopportabili e impossibili domande che mia moglie – la mia seconda e sospettosa moglie – mi rivolge ogniqualvolta mi vede rientrare a capo chino dalla quotidiana passeggiata nel parco. Ogniqualvolta si accorge, dall’espressione accigliata e stravolta del mio volto, che ho sostato a lungo sotto il cedro del Libano che svetta al centro del parco.
Quando è certa cioè che sono rimasto di nuovo seduto, per ore e ore, sotto a quell’albero assolutamente convinto e persuaso di avere sopra la mia testa non una semplice corona di rami di pino, bensì una corona di ricordi che pesano più del piombo. Ricordi che in effetti io sento, per così dire, “stormire” nell’aria quando passeggio tra i viali del parco. Ma, soprattutto, quando mi soffermo sotto le fronde di quel cedro al cui ramo più alto un dì, mi ricordo, aveva scelto d’impiccarsi mia moglie Giuditta, la mia prima dolcissima e infelicissima moglie.
Un albero quindi a dir poco eccezionale, non c’è dubbio. Un magnifico altare arboreo, in un certo qual senso. Un albero, che io sappia, piantato agli inizi del Novecento dal mio nonno paterno e da allora sempre custodito e preservato come un autentico tesoro di famiglia. Tant’è che la sua crescita e manutenzione è sempre stata affidata ai migliori specialisti di arboricoltura ornamentale e, nei casi più critici, ai più provetti fitopatologi in circolazione.
Ecco perché l’altro ieri quando mia moglie – la mia seconda e stupida moglie – mi ha proposto di tagliare la chioma del cedro del Libano per farne legna da ardere, io, con calma glaciale, le ho risposto: “Dillo ancora, e ti taglio la testa!”
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