Erica Cassano, in occasione dell’uscita del suo primo romanzo, “La grande sete”, si racconta su ilLibraio.it a partire dal legame con la nonna Anna, centrale per la genesi del suo primo libro: “Una ragazza che doveva diventare donna in un momento storico in cui crescere sembrava insieme impossibile e inevitabile…”

Dopo di te

Quando, tra i sassi, spuntava raro il dorso di una conchiglia, mi abbassavo per prenderla. La rigiravo piano e ci guardavo dentro con un occhio chiuso e uno aperto, per paura che ci fosse ancora il suo molle abitante.

La paura era infondata, non era mai così.

Sulla mia costa, di conchiglie se ne trovano poche e, quando succede, sono sempre consumate, lisciate da mille capriole nella risacca. Questo le rende appartamenti inagibili per i molluschi, e, per chi le trova, piccoli mondi da osservare senza pericolo che spunti qualcuno a reclamare una proprietà privata.

La storia di mia nonna Anna per molto tempo è stata questo.

Una conchiglia vuota, in mezzo a cocci di altri ricordi, modellata dal vento degli anni che l’avevano attraversata.

In un pomeriggio arroventato di fine agosto, era il mio nono compleanno, la guardai tornare verso casa sua al braccio di mio nonno, a passi piccoli e pesanti. Ero ferma sulla soglia del cancello e mentre le loro schiene si rimpicciolivano, mi svolazzarono davanti alla faccia due palloncini gialli legati alle sbarre con lo spago. Secondo una specie di legge tutto il bello e tutto il brutto, nella mia famiglia, si concentrano allo scadere dell’estate. Quel pomeriggio precedette di pochissimo il giorno della morte di mia nonna. Fu l’ultima volta in cui la vidi.

Da piccoli è raro che ci si domandi chi sono stati i “grandi”, prima della nostra esistenza. Tutti quelli che non sono coetanei sono esseri senza età, molluschi attaccati alle loro conchiglie indistruttibili, fermi lì da sempre, per sempre.

Invece la nonna era morta ed ecco che di lei restava una conchiglia vuota, un insieme di oggetti – il bastone, i vestiti, il cuscino che metteva sul bracciolo del divano- che non le sarebbero serviti più. Lei, il mollusco, era sparito, senza che avessi fatto in tempo a saperne nulla.

Scoprivo che esisteva il tempo e che io ero arrivata tardi.

Restava solo da guardare dentro la conchiglia, con la speranza che qualcosa, in fondo, ci fosse.

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Iniziarono ad apparire per casa le sue fotografie, ritratti in cui era giovane, perché a mia madre piaceva cogliere nelle sopracciglia, nella forma delle labbra, dei denti di sua madre giovane, anche i propri tratti. Piaceva anche a me guardare quelle foto e immaginare come sarei diventata, perché le facce di quelli che ci hanno preceduto sono la profezia delle nostre.

Per la stessa ragione, un pomeriggio mi arrampicai in gran segreto su una sedia girevole per arrivare allo scaffale più alto della libreria. Aggrappata a una delle mensole con una mano, allungai l’altra per prendere il tesoro, una scatola piena di vecchie fotografie, ritagli di giornale e chissà cos’altro. La complessità dell’operazione era accentuata dal fatto che la scatola era di un cartone consumato e rischiava lo sfascio a ogni movimento. Nessuno doveva scoprirmi. Mi vergognavo, stavo continuando a frugare nella conchiglia sperando di trovare il mollusco ancora palpitante, pronto ad affacciarsi. Sollevai il coperchio, iniziai a spargere sulla scrivania fotografie, ritagli di giornale, fiori secchi avvolti in fazzoletti di carta ormai friabili. Sul fondo, alla fine, restò solo un insieme di fogli tenuti insieme da un elastico, fitti di una grafia più ordinata nelle prime righe e sempre più disordinata man mano che si scendeva in basso nelle pagine.

Una storia.

Un pezzo della vita di Anna giovane.

Ecco il mollusco.

Nella Storia della scatola c’era tutto. La complessità della guerra e di Napoli, un primo amore, una scelta da compiere. Una ragazza che doveva diventare donna in un momento storico in cui crescere sembrava insieme impossibile e inevitabile. C’era, poi, per me, un passato in cui poter riconoscere il mio futuro, proprio come con le fotografie.

Forse anche le vite di chi ci ha preceduto sono la profezia delle nostre.

Mia madre dovette accorgersi del mio ficcanasare, perché passò qualche giorno e mi consegnò una versione della Storia della scatola, che aveva trascritto a macchina e rilegato con due spille a formare un piccolo libricino.

 

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Da allora ho continuato a cercare in quello che facevo una connessione con il passato di Anna.

Quando, per esempio, iniziai a frequentare la facoltà di lettere, a Napoli, da subito gustai l’idea che gli stessi gradoni che io calpestavo ogni mattina per entrare nel grande edificio di corso Umberto erano gli stessi che aveva calpestato mia nonna molti anni prima, che sedevo nelle stesse aule e che studiavo pressoché gli stessi argomenti. Passato e presente, insomma, si sovrapponevano.

Il giorno in cui ottenni la mia pergamena di laurea triennale, andai alla parete del soggiorno dove quella di Anna era incorniciata e appesa. Accostai il mio documento al suo e mi sembrò che il tempo che ci divideva si fosse condensato nei pochi centimetri che separavano le due pergamene.

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Ecco chi sono diventata dopo di te”, dissi, come se qualcuno, dietro la cornice di legno, potesse sentirmi, “sono diventata, almeno in parte, uguale a te”.

C’è voluto altro tempo, poi, perché la Storia della scatola prendesse forma oltre quei fogli e diventasse un romanzo. Mentre il personaggio di Anna prendeva vita sulla pagina, dentro di me si ripeteva, costante, un dilemma. Avrebbe veramente agito così, avrebbe veramente parlato così? Un giorno, poi, ho finito di scrivere. Il nero dello schermo ha ingoiato il bianco abbagliante delle pagine, il dilemma era sparito.

“Ecco chi sei diventata, dopo di me” ho detto, come se qualcuno, dietro il computer, potesse sentirmi, “adesso che ti ho inventata, ti conosco”.

Quando, tra i sassi, adesso, spunta raro il dorso di una conchiglia, la prendo e ci guardo dentro, un occhio chiuso e uno aperto, sperando di trovarci dentro qualcosa.

La speranza non è infondata. Il vento che ha modellato la conchiglia di Anna è lo stesso che modella, adesso, la mia.

È lo stesso soffio degli anni.

Non sempre spunta il mollusco, ma anche se la conchiglia è vuota, appoggiandoci contro l’orecchio, si sente lo stesso il rumore del mare.

La Grande Sete Erica Cassano

L’AUTRICE – Nata nel 1998, Erica Cassano si è laureata in Filologia moderna all’Università Federico II di Napoli e ha conseguito un master in Scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. La grande sete (pubblicato da Garzanti) segna il suo debutto nella narrativa: parliamo di un romanzo profondo, capace di stupire e commuovere e che, con il suo stile, rievoca le atmosfere partenopee del secolo scorso.

Al centro del romanzo troviamo Anna, vent’anni e il desiderio insaziabile di vita e di futuro. È il 1943 e l’acqua manca in tutta Napoli, tranne che nella casa in cui la giovane vive con la famiglia. Mentre le donne della città si mettono in fila davanti alla “Casa del Miracolo” chiedendo quanto basta per dissetarsi, Anna sente crescere in lei una sete diversa, e insaziabile. Vorrebbe seguire le lezioni di Lettere, leggere e vivere in un mondo diverso, senza macerie o la paura delle sirene antiaeree. Ma la sua famiglia viene prima, anche dei suoi sogni: suo padre è scomparso e sua madre si è chiusa in sé stessa, la sorella e il nipote si sono ammalati…

Quando si presenta l’opportunità, Anna accetta il lavoro di segretaria presso la base americana di Bagnoli, entrando così in una realtà che non conosce, fatta di persone provenienti da una terra lontana e piena di promesse. Sarebbe più semplice scappare ma Anna non vuole che qualcun altro la salvi, vuole superare le difficoltà e trovare il suo destino… un po’ come la sua città, quella Napoli che si è liberata dal nazifascismo.

Erica Cassano narra così uno spaccato degli anni Quaranta, mentre sullo sfondo Napoli si libera e trasforma, in primo piano assistiamo alla crescita e alla coraggiosa “liberazione” di Anna.

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Fotografia header: La grande sete di Erica Cassano, foto di Ilaria&Silvia Photography

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