“Volevamo prendere il cielo”, la nuova uscita di Federica Bosco, mette in scena una storia ambientata tra Verona e Parigi. Linda, la protagonista, ricorda come se fosse ieri il suo diario del liceo pieno di cuori e frasi romantiche. E ricorda benissimo l’unico nome che c’era scritto: Leonardo… Un romanzo che rappresenta un inno all’amore vero, puro, che fa bene al cuore. – Su ilLibraio.it un estratto

La scrittrice e sceneggiatrice Federica Bosco è in libreria con il suo nuovo romanzo: Volevamo prendere il cielo (Garzanti).

L’autrice, che ha al suo attivo un’ampia produzione di romanzi e di manuali di self-help, sempre con Garzanti ha pubblicato Ci vediamo un giorno di questi (2017), Il nostro momento imperfetto (2018), Non perdiamoci di vista (2019) e Non dimenticarlo mai (2021).

Ora Bosco torna con una nuova storia, tra Verona e Parigi, un inno all’amore vero, puro, che fa bene al cuore…

Linda, la protagonista, ricorda come se fosse ieri il suo diario del liceo pieno di cuori e frasi romantiche. E ricorda benissimo l’unico nome che c’era scritto: Leonardo. Perché solo il primo amore ti fa provare quell’euforia unica e irripetibile, solo con il primo amore il bozzolo del cuore si schiude e si comincia a volare sopra un mondo incantato, dove tutto sembra nuovo, più bello, e luminoso.

Linda in quel mondo con Leonardo ci è stata. Si sentiva come una principessa. Con lui non riesce a vedere la differenza della sua estrazione sociale. Lui con l’autista, lei con il padre che ha comprato a rate la macchina. Per lei è solo il suo Leonardo e nient’altro. Ma si sa, la vita non è una favola…

Sognare troppo a volte può non essere la scelta giusta. Cadere nella cruda realtà allora fa male, molto male. E a Linda non è restato che guardare oltre. Non è restato che far finta che quell’amore non l’avesse mai provato. In fondo basta un attimo e ci si ritrova adulti e le pagine del diario di scuola sono ormai piene di polvere.

Eppure ci sono addii la cui eco non finisce mai. Ci sono curve del destino che riportano al punto di partenza. Ma Linda non è più quella del liceo. E neanche Leonardo. O forse sì. Forse l’amore non invecchia, non scompare, non si spegne. Forse il primo amore non finisce mai…

Volevamo prendere il cielo di Federica Bosco

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

A letto mi girai fino all’alba.

Avevo freddo e non smettevo di pensare alla serata.

Mi sentivo stupida e in colpa.

Perché mi ero fidata? E perché gli ero andata dietro come una scema?

Perché non gli avevo detto di no e invece lo avevo lasciato fare?

Perché avevo subito il fascino del ricco, ecco perché.

Era esattamente quello che era successo, anche se ci sarebbero voluti più di vent’anni e il movimento me too perché lo capissi.

Perché a un ricco arrogante e potente non dici di no, non hai proprio la forza né la presenza di spirito o la sicurezza in te stessa. Inutile girarci intorno, in piccola parte ti senti lusingata e speciale, ma in larga parte perché hai paura di conseguenze che non sarai in grado di affrontare.

L’idea di incontrare Corinna in classe lunedì mi preoccupava, come si fosse rotto qualcosa fra noi. Lei invece mi chiamò appena si era svegliata, a pomeriggio inoltrato, mentre mia madre dopo mezzogiorno e mezzo era entrata in camera mia spalancando le tende.

«Ti sei divertita ieri sera?» mi chiese sbadigliando. «Mi dispiace che non sono potuta stare di più con te, ma era un casino pazzesco.»

«Non ti preoccupare, capisco benissimo! È stata proprio una bella festa, mi sono divertita tanto.»

«Hai conosciuto i miei fratelli? Non ho nemmeno avuto il garbo di presentarteli, che vergogna!»

Dio… perché era sempre così terribilmente gentile!

«Sì, sì, li ho conosciuti, anzi è stato proprio Leonardo ad accompagnarmi a casa.»

«Oh davvero? Non lo sapevo! Non ho fatto neppure in tempo a salutarli, sono partiti stamattina presto per Milano.»

Meglio così, pensai, almeno avrebbero continuato a fare danni fuori Verona.

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Però, dovevo ammettere che ero stata bene con Leonardo, mi era sembrato molto alla mano e genuino, non come il fratello. E poi era bello ed elegante e soprattutto completamente fuori della mia portata, come fosse Robbie Williams.

Dopo quella sera, mi era sembrato chiarissimo il divario che fino a quel momento avevo solo intravisto dietro a un paravento e comunque non considerato necessariamente incolmabile.

Corinna voleva convincermi che eravamo uguali, e lei lo credeva veramente, ma non lo eravamo e non lo saremmo mai state.

Nonostante il primo articolo della dichiarazione universale dei diritti umani recitasse che tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti, era dalla comparsa dell’uomo sulla terra che si verificava il contrario.

E il fatto che fosse stato necessario ribadirlo per iscritto in un documento ufficiale, ne era la prova lampante.

Avevo un mal di testa lancinante per tutto quello che avevo bevuto e il freddo che avevo preso e ne approfittai per rimanere in pigiama tutto il giorno e starmene sul divano.

La mia mancanza di entusiasmo il giorno dopo la festa del secolo non sfuggì a mia mamma. Normalmente mi sarei chiusa in camera monopolizzando il telefono (nonostante le proteste e le minacce dei miei), bisbigliando nella cornetta in codice, per non far loro capire i nostri segreti, mentre adesso tutto quello che mi interessava era vedere le repliche di Beverly Hills 90210, dove ancora credevo che i ricchi e i poveri potessero davvero essere amici per la pelle.

Fu all’ora di cena che mia mamma si affacciò per dirmi che un certo Leonardo mi voleva al telefono, senza aggiungere né «fai veloce», né «chi è questo», ma soprattutto portandomi il telefono con la prolunga, segno evidente che la mia punizione era stata revocata definitivamente e non soltanto messa in pausa per la festa.

Rimase in piedi sulla porta e dovetti farle cenno con la mano di andarsene.

Non mi restava che scoprire se si trattava di quel Leonardo o degli altri due che avevo in classe.

Era quello.

Leonardo Capecchi Lanza che chiedeva proprio di me, di Cenerentola con il suo vestitino di stracci, scalza, che raccontava della festa ai suoi devoti topolini in soffitta.

«Ciao, Linda, ti disturbo?» mi chiese come di sicuro gli altri due Leonardo non avrebbero fatto.

«No, niente affatto», risposi adattando il mio italiano al suo livello.

«Spero non ti dispiaccia se ho chiesto il tuo numero di telefono a Corinna. Ma siccome sono già partito volevo assicurarmi che tu fossi sana e salva e non fossi andata a vendere cerchioni rubati.»

Ci misi una frazione di secondo per ricollegare la sua battuta a quella della sera prima, tanto avevo rimosso in blocco tutto quanto, frazione che bastò a spezzare quella flebile sintonia e a farlo sentire un po’ in imbarazzo.

«Ah già certo!» cercai di rimediare, aggiungendo un: «Serata fiacca, eri l’unico miliardario in circolazione a quell’ora!». Battuta che, però, generò solo una risata di cortesia da parte sua.

«Ho saputo che sei tornato a Milano.»

«Sì, siamo partiti presto, mio fratello era ancora ubriaco da ieri sera, ci è voluto un bel po’ a convincerlo ad alzarsi.»

Il fratello. Già. Lui sì che dormiva sonni tranquilli, fregandosene di chiunque.

Una sigaretta, una macchina o una persona, per lui erano ugualmente usa e getta.

Rimanemmo in silenzio senza sapere cos’altro dirci e senza riuscire a ritrovare la frequenza di poche ore prima.

Sapevo che se avesse riattaccato non lo avrei più sentito e mi dispiaceva davvero. Ma non riuscivo a pensare a niente di intelligente, di spiritoso o di un minimo interessante da dire, allo scopo di proseguire la conversazione e mi buttai con la prima cosa che mi venne in mente: «Lo sai che un panda può mangiare fino a quaranta chili di bambù in un giorno?».

Si mise a ridere.

«Non lo sapevo, ma ti ringrazio di questa informazione che sono certo mi tornerà utile appena manderò il curriculum in uno zoo dopo la laurea.»

Risi io stavolta.

Era bello sentirlo parlare, era sempre incoraggiante, mai aggressivo, mai sopra le righe. Come Corinna, non ti faceva pesare il suo status né la sua superiorità sociale o culturale, ti faceva solo sentire accolto per quella che eri.

Mia madre mi chiamò per andare a cena e la odiai per questo.

(continua in libreria…)

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