Il saggio “Il naso corto” è una sorprendente rilettura delle avventure di Pinocchio. Daniela Marcheschi svela che dietro al finale apparentemente edificante, Collodi ne ha nascosto un altro: Pinocchio non può diventare “per bene”…

Daniela Marcheschi, docente, scrittrice e direttrice dell’Edizione Nazionale delle Opere di Carlo Collodi, ne Il naso corto (Edizioni Dehoniane), propone di rileggere diversamente il finale de Le avventure di Pinocchio di Collodi. Forse non tutto è come sembra. Davvero il burattino irrequieto si ravvede diventando disciplinato e conformista? Davvero è credibile che un romanzo di così suggestivo richiamo e straordinario estro umoristico si concluda come una qualunque opera edificante? E Collodi voleva davvero questo? Oppure nella sua scrittura c’è qualche indizio che ci porta a pensare ad una burla dell’autore nei confronti dei lettori?

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“Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!…”. Così termina il racconto di Collodi. Che chiude Le Avventure di Pinocchio – aperte nel segno ironico di un “pezzo di legno” che parla – con uno sberleffo ancora più squillante: il ragazzino ex-burattino si vanta di essere “perbene”, rischiando di diventare un borghesuccio pago delle sue conquiste. Collodi si prende gioco della sua presunzione utilizzando la punteggiatura (il punto esclamativo e i puntini di sospensione finali, sempre adoperati dall’autore quando intende satireggiare i personaggi che prende di mira) e l’espressione “con grandissima compiacenza”, che egli usa in chiave ironico-satirica in migliaia di articoli giornalistici. Una strizzatina d’occhio, insomma, per avvisare il lettore che il finale della storia è diverso da come sembra.

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Le Avventure di Pinocchio si aprono dunque nel segno del comico per chiudersi nello stesso segno – l’irrisione del ragazzino compiaciuto di sé – con perfetta simmetria, in un ridicolo che ridicolizza a sua volta il ridicolo in una molteplicità anarchica e scoppiettante di direzioni. Pinocchio non può diventare “perbene”, perché tradirebbe il compito che ne contrassegna il destino irrequieto e dinamico: tener vigile la propria coscienza a costo di risultare perennemente irriverente.

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