“Il giro dell’oca” è il nuovo libro dello scrittore napoletano Erri De Luca, che mette in scena una paternità impossibile, un dialogo tra un uomo che non è mai diventato padre e un figlio che non è mai nato… – Su ilLibraio.it l’incipit

Un padre parla a suo figlio alla luce del fuoco nel camino, un fuoco che è luce, calore e scoppiettìo. Il padre racconta al figlio ciò che ha sempre voluto dirgli, dalle giornate napoletane della sua infanzia al rapporto con i suoi genitori, i nonni di quel figlio cui si rivolge, i palpiti di cuore e le scelte che hanno composto la parabola di una vita tracciata da emozioni e sentimenti. Tutto ciò che avrebbe voluto raccontare al figlio e non ha mai raccontato, avrebbe voluto, ma quel figlio è mai stato, abortito da una madre giovane, troppo giovane, e per questo mai esistito, potenza mai volta in atto. Fino a quella sera in cui, davanti al fuoco, calore, luce, del camino, il figlio prende forma, prende voce, davanti al padre che non lo ha avuto, dando inizio a una conversazione che non può accadere, eppure prende forma, quasi facesse capolino dalle pagine di Pinocchio, quel libro per l’infanzia che il padre stava leggendo, prima di cominciare a raccontare la sua storia.

Scrittore napoletano classe 1950, Erri de Luca ha svolto una grande quantità di lavori manuali diversi, è stato dall’operaio al muratore, camionista e magazziniere, volontario in Africa e autista di convogli umanitari, traduttore e poeta. Come scrittore ha spesso affrontato il tema della maternità, nel romanzo In nome della madre (Feltrinelli) e nella raccolta di racconti Il contrario di uno (Feltrinelli), dedicata “Alle madri, perché essere in due comincia da loro”. Con il suo nuovo libro, Il giro dell’oca (Feltrinelli), De Luca riflette sul significato profondo della paternità e della vita, intesa come possibilità di cui si fa dono ai figli, esperienza che si cerca di trasmettergli.

Erri de luca il giro dell'oca feltrinelli

Davanti a un camino acceso, eterno simbolo di familiarità, Il giro dell’oca si svolge come un dialogo, una conversazione intima tra un uomo che non è mai diventato padre e un figlio che non è mai nato; da questa paternità impossibile scocca la scintilla di una riflessione estremamente personale e universale al tempo stesso.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un capitolo del libro:

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Published by arrangement with Susanna Zevi Agenzia Letteraria, Milan

 

Per un terzo di secondo le palpebre scendono a scatto sugli occhi. Succede circa quindici, venti volte ogni minuto. La vista non s’interrompe, perché il cervello unisce i punti luminosi.
Così devono fare queste righe, scorrere senza percepire i punti, gli a capo.
Il rigo da leggere ha da stare tra due battiti di ciglia. È una sera senza corrente elettrica, un fulmine l’ha spenta, come un ruggito ammutolisce un passero. La fiamma del camino rischiara la tavola da pranzo mentre accendo una candela.

Non so da quale madre potevi uscire al mondo, figlio che non ti posso dire figlio mio.
Stasera ascolti mentre ti racconto.
Altre volte parlo a un piatto, dentro il bicchiere, al muro. Esce la voce per il desiderio di ascoltarne una.
Stasera sei presente, parlo a te.
Leggevo il libro dove un uomo anziano inventa un figlio.
È un falegname e se lo fa di legno. Gli piaceva l’idea di farsi dire babbo.
Sei apparso così, costola di un’altra storia, figlio di uno che fa con le parole, materia che non viene da un albero tagliato. La carta su cui scrivo, invece sì.

Sei adulto, non so niente di com’eri prima. Non ti ho rimproverato per un gioco rischioso da bambino, né toccato la febbre sulla fronte. Ci troviamo stasera a tavola, per cena.
Una donna in gioventù mi disse di avere abortito.
Stetti zitto, non contavo niente nella sua decisione presa e fatta.
Stavamo insieme e dentro una folla di coetanei.
Era un amore e un tempo che non si poteva e non si badava a vita privata.
Gravidanza era allora buttare un figlio in pasto al mondo.
Tu non sei quel figlio, pezzo di vita in viaggio, scavato col cucchiaio. Poi lei non ne ha potuti avere.

Sei uno straniero, figlio, quanto la luna in cielo la mattina, che resta ancora dopo il tramonto della notte.
Ti racconto un poco di vita scivolata. Mio padre, nonno tuo, da quasi cieco diceva di sentire le nuvole
con la cima dei capelli. Passano carezze sul cranio di chi non può vederle.
A noi figli fece firmare dal notaio la rinuncia alla sua eredità. Si spogliava di ogni possesso. Mi chiese di firmare.
Dissi che era impossibile negare, rinnegare l’eredità di libri, di montagne, di lingua italiana e l’insegnamento di fare mai questioni di denaro.
Mi chiese di firmare. Misi la mia più falsa firma.

A te, figlio, lascio niente. Rinunci all’eredità senza che te lo chieda. Non ti sarò di peso nella vecchiaia, che non è obbligatoria.
Non è stato il tempo finora a consumarmi, sono stato io a consumarlo. L’ho spalato nel collo di una clessidra orizzontale. Clessidra è una parola che viene dal verbo rubare.
Chi è il ladro, il tempo o noi? Mi denuncio, l’ho rubato io.
Qualche volta mi fermo, per vedere com’è il tempo senza me. Scorre lo stesso, si lascia rubare da un qualunque altro.

Se ti stringo la mano adesso, s’interrompe.
Sento la tua mano di pietra in ogni sasso liscio che tiro sopra l’acqua a rimbalzare.
La luce di candela si lascia guardare, non acceca.
Scintilla nei tuoi occhi scuri, non fa lacrimare.

(Continua in libreria…)

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