Dopo il romanzo d’esordio “La figlia femmina”, Anna Giurickovic torna con “Il grande me”, una storia a tratti destabilizzante, su una giovane donna che si confronta con il dolore di una grande perdita e la scoperta di un insospettabile segreto… – Su ilLibraio.it un estratto

Dopo il romanzo d’esordio La figlia femmina, finalista al Premio Brancati 2018 e tradotto all’estero in cinque Paesi, Anna Giurickovic Dato, nata a Catania nel 1989, torna in libreria con Il grande me (sempre pubblicato da Fazi), una storia forte e a tratti destabilizzante, su una giovane donna che si confronta con il dolore di una grande perdita e la scoperta di un insospettabile segreto.

A Simone, ormai, resta ben poco da vivere e i suoi figli corrono a Milano per stargli vicino negli ultimi mesi difficili. Nonostante il dolore, per la figlia Carla si tratta di un’occasione importante per recuperare il tempo insieme, tempo che in passato non è mai stato abbastanza. Insieme ai suoi fratelli si lascia trascinare dal padre nei ricordi di anni lontani, ripercorrendo le tappe di una gioventù frizzante e di una vita ricca delle esperienze più diverse. Ma Simone, la cui lucidità vacilla sempre di più, vuole usare il poco tempo a disposizione per rimediare a vecchi errori, e confessa ai figli un segreto. Carla e i suoi fratelli non possono che assecondarlo, mentre la malattia si dilata richiedendo sempre più attenzioni e occupando la totalità delle loro vite. Inizia così una ricerca, anche interiore, dai risvolti inaspettati, che porterà Carla e la sua famiglia a scontrarsi con un’ulteriore, dura realtà, oltre a quella della vita e della morte. Un tema forte e una storia su un avvenimento che, prima o poi, tutti dobbiamo affrontare.

Anna Giurickovic Dato Il grande me

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

La testa di mio padre, insieme al suo corpo, sta cambiando. Assisto, ogni giorno, a una mutazione rapida e disorganica dove il certo trasloca nell’incerto, un riarrangiamento cromosomico di tutto ciò che c’è in lui di immateriale risponde, come per ribellione, alla disgregazione della sua materia. Confusione, delirio e ragione convivono in lui ma non dialogano, si alternano, si corrompono, si scindono, ruotano intorno a un’asse che nulla ha ai poli; un’aberrazione discontinua, ora corre, ora frena, devia dalla norma e dal principio, sino a ridefinire l’uomo che era con l’uomo che – seppure brevemente – sarà.

Mi chiudo in bagno, mi siedo a terra poggiando le spalle alla porta. Sono più le lacrime che piango io in cinque minuti dei giorni che tu vivrai, papà. Sulla mensola c’è la mia spazzola, è piena dei suoi capelli. Mi stupisco di cose che non mi dovrebbero stupire.

«Allora, il film ti interessa o no?», lo sento urlare dal salotto.

«Arrivo».

Mi sciacquo il viso, che di tempo per piangere ne avrò, ma quello che mi resta per rendergli lieve ogni suo giorno, è poco. Difficile rasserenarsi ora che tutta la tristezza raccolta mi sta premendo addosso, e quando si è molto tristi, a volte, si ha voglia di essere ancora più tristi, di piangere a volto scoperto, di mostrare a tutti il proprio dolore, «Guardate come soffro, io piango!». Quasi vorrei uscire dal bagno così, con le guance nere di trucco colato, il naso arrossato e gli occhi piccoli e gonfi (Dio, quanto sono brutta), abbracciarlo, posargli la testa sulla pancia e chiedergli: «Perché muori, papà?», sperando che lui, carezzandomi la testa, mi rassicuri: «Qui non muore proprio nessuno, bimba, io no di certo». Che liberazione, sarebbe, potergli urlare in faccia che se lui muore muoio anch’io, che se ha intenzione di farlo davvero, allora dovrebbe dirlo subito e senza troppi giri di parole. Invece, quando torno sorrido, gli regalo le mie menzogne e lui mi è grato, vuole che gli menta senza pudore, desidera una figlia bugiarda che, ingannandolo, lo incateni a un’illusione, siamo d’accordo così, ma non ce lo diciamo.

Papà guarda il televisore, io guardo lui. Ha il profilo illuminato di blu, così simile al mio – che, però, somiglia anche a quello della mamma, della nonna, della zia, della bisnonna Zaira –, e non c’è nemmeno un profilo che sia esattamente come il suo, mai ne troverò uno uguale. Io guardo il televisore, papà guarda me. Facciamo un po’ per uno, così non ci disturbiamo ed entrambi possiamo costruire i nostri pensieri in santa pace.

«Questi sono capelli», ha il pugno sollevato in alto per brandire la prova della sua malattia o della sua cura. Apre il pugno e si sfrega le dita sul palmo, per scrollarsi via i capelli caduti. Non li vedo, fa’ che siano i miei, eppure sono sicura di aver visto dei capelli grigi sulla mia spazzola, in bagno.

«Mai li ho persi, i capelli. Molti tra i miei coetanei sono pelati, ma io no. Non ero neanche un po’ stempiato, e ora… Mi stanno già cadendo? In poche sedute di chemioterapia, possibile che debba capitare tutto a me?».

«Con la chemio è normale».

«Non è normale, tutte a me, c’è chi non li perde, possibile io faccia sempre parte di quella minoranza a cui accadono le cose brutte?».

Non romperti, papà, rimani calmo, guarda ancora il film, riavvolgi tutto il nastro e fingi che non sia successo niente, ce ne stiamo seduti qua fino a che non muori, poi ci penso io al resto.

(continua in libreria…)

 

 

 

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