Nel suo primo romanzo il giornalista Fabio Massa narra una Milano cinica e spietata, in cui il denaro circola senza limiti, e in cui un lobbista si muove a suo agio in un mondo fatto di giochi sporchi, infamie giornalistiche, avvenimenti tanto scandalosi da risultare ridicoli… – Su ilLibraio.it un capitolo (in cui si parla, tra l’altro, del Meeting di Rimini)

Giornalista che conosce bene Milano e i suoi luoghi del potere (scrive su Il Foglio, è firma di Affaritaliani.it e voce di RadioLombardia, ed è proprietario di una azienda editoriale e di organizzazione eventi), Fabio Massa, già autore per Chiarelettere di Fuga dalla città. Milano-Italia. L’inchiesta sulla metropoli simbolo di un Paese che fatica a rialzarsi, è al debutto da romanziere con Il lobbista, libro dalle atmosfere thriller in uscita per Laurana.

A.F.M., il protagonista di questa storia dai risvolti inquietanti, è appunto un lobbista. Uno di quelli bravi: opera in una Milano cinica e spietata, in cui il denaro circola senza limiti. Caustico, con una ironia che sfocia nel sarcasmo e nel dileggio, si muove a suo agio in un mondo fatto di giochi sporchi, infamie giornalistiche, avvenimenti tanto scandalosi da risultare ridicoli. E racconta la sua storia piena di intrecci, uno incastrato nell’altro, come una matrioska, in una vicenda che ha come sfondo il capoluogo lombardo, i suoi hotel, i suoi grattacieli e i suoi potenti e manager, irreprensibili alla luce del giorno, più opachi e ambigui nell’atmosfera seducente dei ristoranti stellati…

La storia di A.F.M. è un intrigo tra i palazzi, che inizia e si conclude in una estate caldissima di Milano,  in cui il protagonista scoprirà di non essere solo una sigla, ma un uomo, Alberto. Sempre più perso in una metropoli che tutto dà e tutto toglie, senza alcun freno inibitorio

Il lobbista libri da leggere estate 2024

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Capitolo 3 

A Rimini il caldo mi ricorda quello di Milano. Solo, c’è quell’allegria che aggiunge un tocco in più. Se davvero il mare fosse mare e se il cibo non fosse quell’inutile susseguirsi di pasta ripiena, a Rimini potrei anche decidere di trasferirmi. Ogni anno mi reco alla riunione dei ciellini, presso la fiera. Prendo un hotel in centro, e non sulla spiaggia, per non mischiarmi ai turisti. Poi, la mattina, mi faccio una bella passeggiata fino alla passerella. I romagnoli sono gente simpatica. “Ehi, vai piano che si suda”, mi fa uno che arranca in bicicletta, vedendomi di passo troppo svelto. Gli faccio un gesto con la mano di quelli che non si sa che cosa vogliano dire ma che comunque va bene così.  

Camminare, la mattina, è un modo per sopravvivere. Sistema le idee e leva un po’ di sangue dalle vene. Mi sono sempre figurato che sia una specie di salasso. Leva le forze, aiuta ad affrontare con lucidità i tornanti, con le marce ridotte. Quello che mi attende, del resto, necessita di grande pazienza. La convention mondiale di un movimento che fu una volta una potenza. Poi, morto il fondatore, si è ritrovato un leader che non è né carne né pesce ma che non può essere liberamente sfanculato 

Così il Movimento muore d’inedia, di fame. Avviene sempre, nei partiti politici personali. Si pensava che questo sarebbe sopravvissuto perché sfruttava un sentimento assai più potente, più profondo, più radicato: la fede. Fede temprata dalla minaccia comunista, cresciuta nella cultura, con i giornali di area, le spedizioni nella notte per portare aiuti a Solidarność. I primi ciellini sono stati in guerra con il pericolo comunista. Sono stati eroi. Adesso, sono reduci. Il loro capo politico è finito in carcere, tra ladri, corrotti e stupratori. Era il Celeste, la persona più famosa e potente. Aveva baciato Madre Teresa di Calcutta, più di un Papa. Nessuno di loro si era accorto che quel governatore, il Celeste, era un pericolo per la società. Ma si sa, i magistrati evidentemente ci vedono più lungo di tutti. E così è finito in carcere.  

Ora il Meeting di Rimini è un momento decadente. Ogni anno perde un pezzo. L’anno del crollo del ponte Morandi, con la città di Genova ferita e spaccata a metà, al Meeting di Rimini era pronto uno stand pagato dalla concessionaria autostradale, immediatamente diventata il diavolo in terra per le manutenzioni non realizzate. Lo stand venne smontato in tutta fretta, i pezzi smaltiti nelle discariche della zona. La faccia deve sempre essere pulita, fa niente che sotto ci siano le piattole. Ma la colpa non è dei ciellini. È del sistema in sé. Il mondo della pubblicità è il mondo della prostituzione. Del resto, il rigore morale anglosassone da noi non esiste. Non siamo privi di moralità, a dirla tutta. È il rigore che ci manca completamente. Vale la legge di Roma: nulla è serio. Neppure a Milano, dove magari non c’è l’ironia della Capitale, ma vige la regola del “Don’t ask, don’t tell”. E questa è una regola che ho dovuto imparare prima di tutto con me stesso: non chiedermi nulla, non farmi domande, non esigere risposte alla mia coscienza. Hai comprato il silenzio di un giornale con quattro pere e un peperone? È lavoro. Hai fatto diventare un cretino integrale un genio della lampada a suon di quattrini e banner e spot? È il potere della stampa. All’inizio c’è un sottile piacere a piegare le ginocchia dei giornalisti che vorrebbero avere la schiena dritta. Ma alla fine si capisce che non è la schiena il problema. Non sono loro il problema. La loro schiena è dritta, delle volte. Ma sono le loro gambe che sono prive di ossa. Non riescono a stare dritti perché il loro sistema economico è morto e sepolto. Se vogliono vivere, devono strisciare. Non è giusto, ma è così. Strisciano con la schiena dritta. Una volta strisciavano dietro il Celeste perché la Regione Lombardia pagava i loro giornali. Poi, alla caduta, si sono vendicati.  

“Quelli del nostro giornale hanno la schiena dritta e contro il Celeste ho scritto decine di pezzi”, si vantava un cronista di lungo corso nel foyer del Consiglio Regionale. Subito rimbrottato dalla collega: “Per quelle decine di pezzi hai strisciato nel suo ufficio centinaia di volte, e ti sei consumato le ginocchia”. La piccola prostituzione giornaliera è il sale dei quotidiani. Ed è un male. Perché allora la verità non esiste, si relativizza, i giornalisti dicono il falso, i medici fanno morire, gli avvocati ti mandano in carcere e siamo daccapo: siamo tutti stronzi. Come diceva quel mio amico. 

Al Meeting di Rimini devo vedere delle persone. Non ci vado per piacere, è ovvio. Devo chiudere dei contratti. Uno in particolare, che riguarda una vicenda sindacale. L’azienda che mi ha ingaggiato vuole ridurre i buoni pasti di un paio di euro. È l’azienda dell’uomo della corsetta con il Celeste. La motivazione del grassone è nobile: risanare i conti aziendali, tirarsi a lucido. Il finale un po’ meno nobile: vuole farsi comprare a buon prezzo da una multinazionale che avrebbe poi delocalizzato in Slovenia. Tra gli stand incrocio l’amministratore delegato di questa azienda, che mi chiede se posso far qualcosa con un sindacalista, poiché si stanno mettendo di traverso. “Eppure è un bene per tutti: nel giro di qualche anno con noi perderebbero tutti il lavoro. Così invece rinunciano a due euro al giorno, ma diventano parte della multinazionale: un lavoro assicurato per il resto della vita”. È quasi convincente, se non sapessi che la multinazionale comprerebbe comunque quella azienda. Finito il colloquio con l’AD, incontro un vecchio amico. Mi ferma lui, nella hall dell’albergo.  

Scopri la nostra pagina Linkedin

Seguici su Telegram
Scopri la nostra pagina LinkedIn

Notizie, approfondimenti, retroscena e anteprime sul mondo dell’editoria e della lettura: ogni giorno con ilLibraio.it

Seguici su LinkedIn Seguici su LinkedIn

“Come stai, amico mio geniale?”, esordisce. Mi chiama così da quando risolsi, ormai un bel po’ di anni fa, un problema enorme alla sua azienda. E non chiesi – strano a dirsi – nulla in cambio. La vicenda riguardava quel patron di grandi supermercati che nella rossa Emilia non è mai riuscito a sfondare. Storia nota. Comprò il terreno, ma la lobby delle Coop fece muro. Scrisse un libro, e ci fu uno scandalo. Oggi mi appare chiaro che la pretesa di una superiorità morale è spesso solo una scusa, solo un modo per aggirare la moralità vera. Quando incontrai l’amico che mi definisce “geniale” (troppo buono, e troppo ingiusta la definizione) ero il capo di gabinetto di un sindaco di un comune di medie dimensioni. Diciamo che rispetto alla stragrande maggioranza dei comuni italiani era assai grande. Ma non era per nulla enorme. Il sindaco era un vero e proprio bipolare.  

Me lo facevo andar bene, perché a 20 anni avevo un bel vestito e un ufficio d’angolo. Un giorno il sindaco arrivò nel mio ufficio raccontandomi che aveva finalmente sbloccato le pratiche per il supermercato che dava fastidio alle Coop. Le cooperative si sarebbero arrabbiate, ma gli altri sarebbero stati riconoscenti. Senza troppi preamboli, questo sindaco di sinistra mi mise sul tavolo un elenco di almeno cento nomi. E mi disse candidamente: “Devi farne assumere trenta”. Trenta elettori, trenta grandi elettori.  

Guardai i nomi, e i curriculum. Erano tutti pessimi, altrimenti non sarebbero ricorsi al sindaco per farsi assumere o per far assumere il figlio in un supermercato: ci sarebbero riusciti da soli senza cercare di fregare sulla fila. Mi sentivo in imbarazzo, ma già allora mi era chiaro che il lavoro è lavoro, e qualcuno lo deve pur fare. Incontrai gli emissari del supermercato, tra cui il mio amico di oggi, che volevano già in quel momento discutere dell’espansione, anche se ancora non era stata ultimata la struttura.  

Fu un meeting durissimo, quasi un match. Avevo capito che erano ossi duri. Loro volevano farmi passare l’arrivo degli scaffali imbanditi di ogni ben di Dio come una manna dal cielo. Io spiegai loro che la città aveva già cinque supermercati, di cui due enormi, e che il loro più che un valore equivaleva solo a nuove grane, nuovi fastidi a chi già c’era, a un colpo in più al commercio di vicinato nonché a un peggioramento della congestione del traffico.  

Il mio amico andò via molto arrabbiato. Lui e un altro tornarono la volta dopo, ma vollero andare dal sindaco, che si negò. E finirono ancora una volta nel mio ufficio, lividi. Continuai nella mia scena, per deprezzare il prodotto. Alla fine lui, il più anziano dei due, un uomo azzimato, di fascino e parlantina, elegante senza essere stucchevole ma con i denti e l’attitudine di uno squalo, mi soffiò in faccia: “Che cosa vuole, dottore?”  

Io gli spiegai che non volevo nulla, giacché il mio incarico non era elettivo. Ma che il sindaco avrebbe gradito molto che trenta persone venissero prese in considerazione. Il manager, senza guardare la lista, la prese e la passò al suo collega, che peraltro era il responsabile delle risorse umane. Che invece la guardò. E sfogliò i curriculum. Poi allargò le braccia: “Ma non possiamo assumere questa gente. Questi non sanno fare niente. Lo si evince chiaramente dai curricula. Questo ha messo un refuso nel suo nome. Guardi: Alfons, si è scordato la o”.  

Lo fissai negli occhi: “Forse vuole fare l’americano”.  

Non sorrisi io e non sorrise lui. Si alzarono insieme e andarono via. Mi chiamarono due giorni dopo.  

Intanto, io avevo deciso di lasciare l’incarico dopo che il sindaco mi aveva chiesto di occuparmi di trovare qualcuno che lavasse il gonfalone. Io avevo obiettato che non ero una lavandaia. Ciao-ciao. Così, quando due giorni dopo mi contattarono, li convocai immediatamente. Si sedettero pronti a cedere su qualche nome, magari uno o due, e con contratti che ne avrebbero permesso il licenziamento dopo due anni. Ma li stupii. 

“Cari signori, ho cambiato idea. Vi consiglio anzi un modo differente di trattare la questione. Invece di assumere questi senza arte né parte, fate rilasciare al vostro ufficio stampa un comunicato che verrà ripreso dal giornale cittadino. In questo comunicato varate il lavoro a chilometro zero, ovvero specificate che visionerete prima di tutte le candidature di lavoro di chi abita il territorio. E che poi sceglierete comunque i migliori”, spiegai. 

Quello più anziano capì al volo, ma si preoccupò: “Il sindaco è d’accordo?” E io: “Come fa il sindaco a non essere d’accordo che si valorizzino i talenti del territorio?” Fecero come dicevo. Il sindaco se lo trovò sul giornale. Si incazzò come una iena, e quando arrivò nel mio ufficio gli spiegai che sul tavolo riunioni c’era la mia lettera di dimissioni.  

Potevamo chiuderla così, nel silenzio. Oppure lui poteva cacciarmi, e io spiegare il motivo per cui mi stava cacciando. Faceva caldo, e in mano, per sventolarmi, tenevo una delle tre copie delle liste di nomi, per farmi aria. Se ne andò senza salutare.  

Perse le elezioni tre anni dopo, ma a me non interessava più. Con il manager anziano, come dicevo, siamo diventati amici. Gli chiedo come va, mentre sorseggio un gin tonic. Io lo gradisco con l’estratto di rovere, che lo rende un po’ più amaro. Lui, invece, beve un Aperol. “Va tutto bene, alla grande. Sei di una furbizia indimenticabile”, mi dice, rivangando quella storia. “Ti è piaciuta l’idea del lavoro a chilometro zero?”, rispondo, gongolando. “Talmente tanto che la vorremmo replicare in giro per l’Italia”, e butta giù un sorso. Parliamo ancora un po’, poi si allontana. Alla prossima. 

La mia esperienza romagnola annuale non è finita. Assolutamente no. Perché quello del meeting, per il potere, è un vero e proprio mondo. Non bisogna però sottovalutare gli aspetti positivi: c’è anche una riflessione alta su diritti e doveri del potere stesso. La gente è deludente. Ma le idee sono sempre grandiose. E in CL c’è tanta, tanta gente che ci crede ancora, e che rappresenta la spina dorsale ancora solida di una classe dirigente che – per il resto – non ha fatto altro che degradare nel becero qualunquismo di una sinistra buona sola a ribadir concetti.  

Scopri il nostro canale Telegram

Seguici su Telegram
Le news del libro sul tuo smartphone

Ogni giorno dalla redazione de ilLibraio.it notizie, interviste, storie, approfondimenti e interventi d’autore per rimanere sempre aggiornati

Inizia a seguirci ora su Telegram Inizia a seguirci ora

Riflettendo di questo e di altro, incrocio un vecchio amico. Era uno che frequentavo un tempo. Una quindicina d’anni fa era un ministro assai importante. Aveva avviato varie rivoluzioni, tra cui quella del digitale terrestre e quella del fotovoltaico. Ovviamente con il solito strabismo tutti si concentrarono sui decoder del digitale, che costavano quattro soldi, e non sul fotovoltaico: potere della rivoluzione verde. Peccato che fosse là il problema, e nessuno se ne è mai accorto. Dopo anni di mancata frequentazione me lo ero ritrovato a New York, all’inaugurazione di un grattacielo costruito da un italiano piccoletto ma tostissimo. Eravamo arrivati negli States ubriachi per colpa della first class, approfittando dello champagne gratis. Mi ero scolato almeno una bottiglia solo nell’oretta passata sopra la Groenlandia, cercando di intuire giù, nel ghiaccio, come dovesse essere vivere. Poi mi ero abbioccato fino al JFK. Pensavo, mentre allungavo le gambe nel mio loculo multimediale, che nessuno dei miei parenti aveva mai viaggiato così, e invece io andavo e tornavo spesso con biglietti da 5mila euro. Con l’autista e l’auto, con la lounge e tutto il resto. Il lusso immorale mentre cianciavo di moralità in politica con un famoso giornalista di finanza. Lui, l’ex ministro, faceva l’amministratore delegato della società immobiliare che operava, oltre che negli States, nello stesso territorio dove era stato eletto, nello stesso collegio. Io ero stato invitato al “topping out”: una cerimonia di inaugurazione dei cementi. Praticamente, quando lo scheletro vuoto del grattacielo è finito, fino all’ultimo piano, si fa una festa con i media, i politici e – visto che siamo italiani – la doppia bandiera. Solo che era marzo, la Statua della Libertà congelava a -7, e al 70esimo piano la colonnina era anche più bassa. E tirava un vento della madonna. Così l’ex ministro si era rifugiato dietro un cesso chimico usato dagli operai messicani, e se ne stava là, riparandosi. Noi tutti ci eravamo messi in fila, dietro di lui. Una lunga fila di coglioni che si riparavano dal freddo dietro un cesso chimico. Gli americani erano contrariati dal disagio. Gli unici che ridevano eravamo noi. Perché solo noi italiani sappiamo godere delle situazioni ridicole, buffe, paradossali. Poi, finita l’inaugurazione giù a mangiare da Serafina, un ristorante dove spacciano i maccheroni per mezze penne. E niente, per questo – molto più che per il clima – il senatore si incazzò non poco. 

“Come stai?”, mi dice dunque l’ex ministro, allungando la mano per darmi una zampata cordiale. 

È un uomo molto simpatico. E che non sta mai fermo.  

“Io sempre in giro, combatto. E tu?” 

Mi aggiorna. Ha un po’ di guai giudiziari. Dicono che si sia fregato 350mila euro dalle casse del suo ex partito, da cui è uscito con grande clamore sui giornali. Ovviamente anche lui mi chiede un favore, per cercare di placare la stampa. Ma questo non lo farò mai. La stampa è libera. E lui – purtroppo per lui – conta troppo poco per incatenarla. Alla fine quella storia, anni dopo, si chiuderà con un patteggiamento. Certo è un uomo brillante, simpatico. Come tanti che conosco. Non c’è nessuno che sia completamente buono o cattivo. Sono tutti impasti di bassezze e miserie e colpi di genio. Ognuno di noi lo è. Solo che nel mondo del potere tutto è estremizzato: più colpi di genio, più precipizi di immoralità. Poi c’è la vita, che ti sballotta dalla sinistra alla destra, o forse sono loro che girano intorno a te, che rimani un umile essere umano che cerca di sopravvivere. Prima di abbandonare tutti gli stand, anche quest’anno, mi viene in mente della mia gioventù.  

Andai al Meeting di Rimini con un vecchio caporedattore. Lui aveva i baffi. Era un vecchio comunista, ma era finito a lavorare per un giornale ciellino. Poi scoprii che il giornalista non l’aveva mai fatto: vendeva pubblicità, all’Unità. Si era spacciato per giornalista e dunque questo faceva. È un mondo di cialtroni. Peraltro, scriveva benissimo, e aveva una grande cultura. Leggeva continuamente, e fumava moltissimo. Ne accendeva una con l’altra. Quell’anno gli facevo da assistente, e dormivamo in camera insieme. Io in un letto, lui nell’altro. Mi svegliai, la prima notte, senza riuscire a respirare. C’era lui che fumava, il puntino di bragia che brillava nella notte come un occhio di Caronte. Eravamo al seguito di un editore completamente pazzo. Faceva i soldi con la movimentazione terra a Buccinasco. Erano anni ruggenti: faceva vincere o perdere le elezioni in quella che definiva “la grande città”, mentre i suoi camion targati KR andavano in lungo e in largo. Ai manager delle sue aziende aveva regalato un anello, e li riuniva attorno a una tavola rotonda. Spesso si faceva ritrarre come un cowboy, e si era pure comprato un pezzo di spiaggia sul litorale romano per vivere a cavallo. Così, per il suo ego. Tipo eccentrico, iracondo, umorale, disonesto. Un giorno assistetti a un incontro tra lui e uno degli assessori della Provincia. Il giorno dopo me ne andai dal giornale. Una decina di anni dopo mi raccontarono che quel giornalista dell’Unità era in automobile con il figlio. Iniziò a star male. Si fermò a vomitare sangue. E morì. L’editore invece è andato in carcere per bancarotta, il che sembra incredibile per il tempo che ci è voluto a farlo accadere: secondo gli inquirenti aveva bruciato la documentazione che avrebbe potuto aiutare il liquidatore. 

(continua in libreria…)

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Libri consigliati

Abbiamo parlato di...