“Il paradosso della sopravvivenza” di Giorgio Falco è il romanzo di formazione di un uomo gravato dal suo rapporto con il cibo, in un mondo che ha perso ogni autenticità, in cui l’alimentazione e la sessualità ruotano attorno a un vuoto e l’unica speranza è riuscire a resistere nella solitudine, perdurando nel deserto nonostante tutto…

Mentre il mondo si fa sempre più immateriale, falso, prodotto in scatola e sezionato dagli analisti di mercato, i corpi tentano di sopravvivere riempiendo il vuoto con un desiderio frustrato, consapevoli di stare diventando un resto ingombrante, uno scarto inessenziale e doloroso. Il paradosso della sopravvivenza di Giorgio Falco, edito da Einaudi, è un romanzo di formazione che più che raccontare la crescita parla della permanenza disperata e priva di contatto con il mondo di Federico Furlan, ovvero Fede il ciccione, un ragazzo che fin dall’infanzia deve fare i conti con l’obesità e con un corpo che lo condiziona nel rapporto con gli altri e in tutti gli ambiti della vita. 

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Fede è la presenza di un assenza costante. Assenza di affetti e di legami, solo apparentemente riempita dal cibo, che diventa nello stesso tempo un nemico e un alleato per rimarcare la sua esistenza.

L’educazione sentimentale di Fede a Pratonovo, paesino in un’immaginaria vallata italiana, è un legame di umiliazione con Giulia, ragazza ricca, figlia di produttori di spumante e mezza anoressica, forse preda anche lei del medesimo vuoto ma salvata dal denaro, da un potere che assicura una stabilità ontologica. Giulia usa Fede, ne fa uno schiavo: dovrà mangiare nudo di fronte a lei nuda, assistere a rapporti sessuali sempre ingozzandosi e costretto in una gabbia di castità. Fede si sottomette più che per amore per la necessità di trovare nel masochismo un ruolo, un’effettività.

Giorgio Falco il paradosso della sopravvivenza

La cifra della vita di Fede, e del mondo intorno a lui, sarà questa: l’inerzia, il desiderio di mantenere un’esistenza che si fa atona, estranea quando non ostile. E che si prosciuga mentre il corpo di Fede resta sovrabbondante, estremo, malvisto dagli altri. È il paradosso della sopravvivenza, la bizzarra teoria che il medico del paese espone a Fede e che vorrebbe che «ciò che ci uccide ci protegge, almeno in una prima fase, per eternizzare non certo la vita, quanto la sopravvivenza, come se sopravvivenza e vita fossero scisse».

E Fede vedrà coi suoi occhi tanto la morte quanto l’invalidità. Prima nel disastro della funivia del suo paese, e dopo a Milano, quando alla soglia dei trent’anni cercherà di fuggire nella grande città per sottrarsi alla tirannia di Giulia e prendere finalmente in mano la sua vita, salvo poi ritrovarsi prigioniero della medesima ripetizione, dello stesso nulla.

Lì conoscerà colleghi di lavoro mutilati o paralizzati, scampati alla morte e rimasti nella vita come rimasuglio più o meno malinconico. «La condizione di ciccione è invalidante quasi come un incidente, ma Fede non ha avuto alcun trauma improvviso, soltanto l’accumulo dei giorni, la vita. Non basta questo?».

Nel romanzo tutte le esistenze monche, residuali si muovono in uno sfondo di pura inautenticità. Prima nella vallata di Pratonovo, inesistente ma così realistica nei suoi tratti kitsch, che mette in scena il carnevale turistico e grottesche caccie alle streghe negli anni passati per cercare di ostentare un rapporto vivo alla storia del luogo, ed è già colonizzata dagli apparati della messa a valore del territorio, che siano la funivia o un consumo di massa in via di sviluppo. E dopo c’è Milano, la terra promessa di Fede adulto, un terribile deserto moderno dove avanzano il mercato e comincia a muovere i primi passi la digitalizzazione, tra supermercati in cui ogni merce ha un codice che è come una formula di evocazione e uffici dove bisogna imparare a elaborare in trenta secondi la stringa di tag di un video porno. 

Anche quello che è forse l’unico amore di Fede nel romanzo, con una donna altrettanto grassa e che i colleghi chiamano crudelmente Barbie cassonetto, è in fondo un incontro mancato, una storia triste che termina per la goffaggine di Fede e sembra voler significare come nel mondo attuale non ci sia spazio per un sentimento vero. Resterà solo il ricordo dell’impronta dei loro corpi caldi sulle piastrelle di un appartamento, la prima volta di Fede subito ricoperta dagli errori che li separeranno. Così come sono sfuggenti i legami con la famiglia, con una madre che non vuole vedere il disagio del figlio e un padre distante, poco empatico e che invecchiando diventa picchio Jerry, un profilo di acquirente di prodotti alimentari in sconto ben conosciuto da chi studia i dati di vendita.

Alimentazione e sessualità si reiterano per tutto il romanzo parlando proprio del loro essere vuoto o scarto, ripetizione nauseante che toglie senso e lascia uomini e donne come agglomerati che ormai non sperano più se non di riprodurre la propria presenza a metà nel mondo. Fede sopravvive, è solo sfiorato da tragedie che però proprio come vuole il paradosso lo lasciano intatto nella sua desolazione senza sgomento.

Non c’è redenzione per lui e per nessuno degli altri personaggi, perché tutti abitano un mondo in cui cibo e sesso hanno perduto ogni tensione e ognuno è consegnato a un atomizzazione irrimediabile in uno scenario di cartapesta. Il racconto del disastro della funivia, che lascia un solo superstite, è introdotto da queste parole: «Potrei essere io. Potresti essere tu. Questo io turistico, io plurale, ma solo. La solitudine del sopravvissuto».  

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