Il 29 gennaio 1996 un incendio distrusse il Teatro La Fenice a Venezia. Parte da quelle fiamme il nuovo libro di Giorgio Falco, che torna a riflettere sul dilagare irrefrenabile e distruttivo del capitalismo e sulle conseguenze che ha sul senso di alienazione e fallimento personale contemporanei. L’autore fonde nel modo più estremo forma e contenuto: il testo non è solo il racconto di un flashover, è esso stesso un flashover. Ci si chiede: che cosa sono i resti della Fenice? Rovine di Venezia? Macerie del capitale? – L’approfondimento

Il 29 gennaio 1996 un incendio distrusse il Teatro La Fenice a Venezia. Secondo le ricostruzioni, la causa fu il mancato spegnimento di un cannello (una specie di piccola fiamma ossidrica) utilizzato dalla ditta Viet di Enrico Carella che in quei giorni stava conducendo dei lavori di miglioramento del sistema elettrico. Carella aveva ottenuto il subappalto dalla Elettrotecnica Argenti, un’azienda romana in cui lavorava il padre. Sempre Enrico Carella prima del subappalto aveva contratto una serie di debiti personali, legati principalmente all’amore per le macchine di lusso. Non ultimo, a causa del dilungarsi dei lavori e l’imminente riapertura il 28 febbraio del teatro con in programma un concerto di Woody Allen la Viet rischiava di dover pagare una penale di 250.000 lire per ogni giorno di ritardo oltre la scadenza di consegna.

Da questi elementi parte Flashover (Einaudi) di Giorgio Falco per raccontare, attraverso l’incendio del Teatro simbolo di Venezia, non solo la storia del crimine di Carella e i dieci anni di indagine necessari per condannarlo, ma soprattutto la deriva sociale ed etica avviatasi nel nostro paese e globalmente a partire dalla fine degli anni ’70 e che ha subito un’accelerazione tra gli anni ’80-’90 a causa del propagarsi tossico di un neoliberismo sfrenato che ha fatto del capitale e del desiderio capitalista il volto sempre meno umano e più artificiale della collettività.

giorgio folco

Non è un tema nuovo a Falco quello del dilagare irrefrenabile e distruttivo del capitalismo e delle conseguenze che ha sul senso di alienazione e fallimento personale contemporanei. Ne aveva parlato nel testo autobiografico Ipotesi di una sconfitta (Einaudi, 2017), ne L’ubicazione del bene (Einaudi, 2010) e in Sottofondo italiano (Laterza, 2015). Ma qui porta avanti il discorso in maniera nuova: decostruisce e distrugge convenzioni e generi narrativi per fondere nel modo più estremo forma e contenuto. In altre parole, il testo non è solo il racconto di un flashover, è esso stesso un flashover.

Il flashover indica lo sviluppo completo dell’incendio, soprattutto all’interno di un luogo chiuso; la temperatura è altissima, uniforme, e non si verifica più il rapido aumento tipico della fase di propagazione: tutti gli elementi bruciano all’unisono, il fuoco raggiunge la totalità delle superfici disponibili, ogni cosa non si rivela per come appariva pochi minuti prima, ma in quanto fuoco. Il flashover identifica il momento di transizione tra un incendio in crescita e un incendio nella sua fase matura.

Il testo è inclassificabile: “né romanzo, né racconto, né saggio, né novella, né poesia”, ma “una concatenazione di ipotesi, supposizioni basate sempre sui fatti”, perché solo attraverso i fatti reali “è possibile costruire, pezzo dopo pezzo, realtà artificiali, che svelino verità, o meglio ancora pezzetti di verità”. In apertura vediamo Enrico Carella seduto nella BMW appena acquistata che ha l’odore sintetico e di laboratorio del nuovo che si muove lento per le vie di Marghera solo per assaporare il piacere del possedimento. Alla fine lo ritroviamo nell’hinterland veneziano, declassato a elettricista, ma pacifico perché tra case, capannoni, rotonde e centri commerciali, potrà dimenticare “di essere stato il titolare della ditta Viet: potrà iniziare una nuova vita, diventare un professionista del verde.”

Tra i due sconfinamenti romanzeschi – così li definisce Falco – si inserisce il reale Flashover. Una narrazione serrata che brucia su se stessa e invade ogni elemento che tocca, dalla concupiscenza imprenditoriale al rapporto di dipendenza e asservimento prodotto da uno stile di vita determinato unicamente dall’accumulazione dei debiti. In questa sezione centrale Falco dà letteralmente fuoco a tutto e lo fa mettendo in luce la relazione tra linguaggio e capitale (accendere un mutuo, estinguere un debito, avere un fido), tra capitale e identità, tra individuo e collettività, tra scrittura e rappresentazione, tra corpo e denaro. Lo fa utilizzando tutto quello che gli capita tra le mani, modulando la scrittura, cambiando punti di vista, saltando dal cuore della narrazione a divagazioni periferiche, lo fa inserendo le fotografie di un uomo mascherato, volto assoluto del capitalismo fissato in un tempo rimosso dal suo stesso scorrere, lo fa infine bruciando quel limite tra l’individuo Enrico Carella e la società in cui è nato.

In quale punto termina la singola fiamma e incomincia l’incendio? In quale punto si trova il limite tra fiamma e fiamma? È probabile che questo limite esista al di fuori dei nostri sguardi, al di fuori del mondo, nell’origine del puro limite, di ciò che è talmente puro da non essere limite per come lo intendiamo noi. Ma se proprio occorre pensare il limite all’interno del nostro mondo, non lo immaginiamo in un punto esatto, centrale, in un nucleo incandescente, bensí in una sorta di periferia osmotica, diffusa, dispersa, incendiaria. In mezzo all’incendio c’è una fiamma, ai bordi dell’incendio c’è una fiamma. Ogni fiamma è la biografia quasi irriconoscibile di un pezzo bruciato. Ogni fiamma dimentica la propria biografia individuale per vivere nella dimensione di grandezza collettiva.

La dimensione collettiva del disastro (crimine) della Fenice è quel su cui insiste Falco nelle appena duecento pagine di Flashover. Ma attenzione, non è una dimensione collettiva perché il teatro è il simbolo culturale di una città e la sua distruzione riguarda tutti, né tantomeno perché la ricostruzione del danno prodotto dai bisogni economici di un singolo è stata pagata con le tasse di una comunità intera (un punto su cui insiste Falco mettendo in relazione il rapporto tra colpa individuale e conseguenze collettive), ma perché l’atto di Carella è la manifestazione quanto più banale di quel che è diventato in larga parte il nostro mondo, un mondo dominato unicamente dal capitale, dove Carella non è che una fiamma che non si distingue dalle altre fiamme.

Che cosa sono i resti della Fenice? Rovine di Venezia? Macerie del capitale?

La Fenice, indica Falco, non è più il simbolo mitologico di rinascita dalle ceneri su cui la retorica mediatica ha continuamente insistito, non è più il teatro di una città da preservare per il suo valore storico e culturale, ma il capro espiatorio di una civiltà che si è ritorta su se stessa ed è in autocombustione.

C’è qualcosa di malinconico in ogni flashover su cui incombe la distruzione: la distruzione portata da se stesso, la distruzione di se stesso.

Se Carella alla fine si ritrova serafico nella periferia di fronte alla possibilità di una nuova vita a fronte del danno che ha causato, se la stessa società di cui ha bruciato parte della memoria culturale non ne ha punito la cupidigia è perché questa stessa società è ormai guidata dallo stesso demone – il capitale – che ha guidato le azioni di Carella.

Il libro si chiude con la fotografia di un tramonto, forse il tramonto che Carella ha visto dall’aereo che lo conduceva in prigione a Venezia dopo una latitanza di alcuni anni in Messico, o forse il tramonto di una civiltà di cui Falco non riesce a vedere possibilità di redenzione.

Assieme a Venezia bruciano Mestre, Marghera, l’Italia alla fine della decadenza. È giunto il tempo per l’incendio generalizzato e definitivo, il flashover di una civiltà già defunta, che muore ogni volta fingendo di rinascere solo per continuare a morire meglio, per continuare il miglior morire insistente e noncurante; l’Italia mantenuta in vita dall’artificio, da una serie di interessi economici, finanziari, criminali.

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