“Imparerò il tuo nome” è il primo romanzo femminile della scrittrice novantenne Elda Lanza (che è stata la prima presentatrice della storia della Rai). Un libro che vede la protagonista, cresciuta sola nel suo deserto affettivo, a contatto – da adulta – con la sua prima vera educazione sentimentale – Su ilLibraio.it un estratto

Crescere senza amore è estremamente difficile. Lo sa bene la protagonista del nuovo romanzo di Elda Lanza Imparerò il tuo nome (Ponte alle Grazie). Lei non sa e non capisce nulla dell’amore, perché perduta la madre e abbandonata adolescente dal padre, è cresciuta sola nel suo deserto affettivo, riuscendo a divenire una donna forte e determinata.

Ma da adulta, a contatto con quell’acida frivolezza dell’ambiente di lavoro, una prestigiosa rivista milanese, subisce la sua prima vera educazione sentimentale: un viaggio senza pregiudizi attraverso gli altri alla scoperta di se stessa, dei misteri del desiderio e dei legami tra le persone. Un viaggio travolgente che sembra aprire in lei – questa volta davvero – lo spazio per l’amore e per una vita nuova.

Elda Lanza – novantenne, prima presentatrice della storia della Rai, docente di Storia del costume – nota ai lettori per i gialli che narrano le peripezie di Max Gilardi (Niente lacrime per la signorina Olga, Il matto affogato, Il venditore di cappelli, La cliente sconosciuta, La bambina che non sapeva piangere e Uno stupido errore), e per il trattato sull’arte della convivenza Il tovagliolo va a sinistra (Vallardi), affronta con Imparerò il tuo nome (Ponte alle Grazie) il suo esordio nel romanzo femminile. Grazie a una scrittura asciutta, lucida e appassionata racconta una storia nella quale è facile perdersi e riconoscersi. Esemplare e scandalosa allo stesso tempo.

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Per gentile concessione dell’editore, riportiamo un estratto: 

Sono tornata. Martedì e venerdì di ogni settimana. Sono passati quattro mesi. Parliamo. Lei non vuole che io le racconti i miei guai. Parlami dei tuoi progetti, mi dice. I tuoi guai lasciateli alle spalle. Guarda avanti.

È quello che ho davanti che mi fa paura. Dietro di me, il mio passato, proprio perché l’ho superato, mi sembra rassicurante. L’ho superato e non sono morta: morirò soltanto nel mio futuro. Sono spaventata e lei lo capisce.

Ogni volta indossa un caftano diverso, alcuni sono preziosi. Ha avuto una madre indiana e un padre italiano, Genova. Mi dice queste cose con voce leggera, rispondendo alle mie domande. Con impazienza, non vuole parlare di sé.

Mentre lavoro in redazione o a casa, penso a lei, seduta con le ginocchia incrociate sotto il suo caftano, con una qualunque donna di fronte che le racconta la propria vita. Mi accorgo di essere gelosa di quelle sconosciute. Voglio che sia soltanto mia. Una sera, dopo la nostra seduta, mi invita a restare. “Mangiamo qualcosa insieme, ti va?”. Arrossisco di gioia. “Sì, naturalmente. Devo andare a prendere qualcosa?”

“Ma no. Riso al vapore con verdure e un dolce. È tutto pronto di là. Siediti e stai tranquilla”. Preme alcuni bottoni su una radio e subito una musica che non conosco mi graffia la pelle, facendomi venire i brividi. “Ti piace?”. “Sì… Chi è?”. “Erik Satie… Aspettami, vado a fare una doccia”.

Chiudo gli occhi. Non riesco a essere felice per quell’invito, mi dico che lo fa con tutti per non mangiare da sola. Ora è toccato a me, dopo quattro mesi. Non ha un uomo? Quando riapro gli occhi la vedo passare nel corridoio, i passi attutiti dal tappeto. È completamente nuda. Richiudo gli occhi, come se l’avessi sorpresa. Mi manca il respiro. Una strana sensazione in mezzo allo stomaco.

“Sono pronta” dice, affacciandosi alla porta. Il caftano bianco, di cotone a più strati, cade leggermente da un lato, alla scollatura, lasciandole libera una spalla. La pelle è bianchissima, tesa sulle ossa fragili. I capezzoli segnano il tessuto. Quando cammina verso la luce, in trasparenza scorgo le gambe. È nuda. La stanza, che non ho mai visto, è piccola, tinteggiata di rosa salmone, con pochi mobili graziosi. Molte candele accese, sul davanzale della finestra, sui mobili, in terra. Profumo di incenso e di cannella. In mezzo alla stanza un tavolo quadrato, apparecchiato per due, e due sgabelli senza spalliera. Cuscini, anche contro il muro. Un mézzere indiano sul tavolo, due ciotole di porcellana blu e verde, bicchieri dallo stelo lungo e sottile.

“Ti piace?”. “Sì, è tutto molto… esotico”. E rido, come una stupida. Conosco la sua casa: un fotografo della rivista dove lavoro l’ha fotografata per il servizio, io l’ho impaginato e Luciana ha scritto le didascalie. Glielo dico e lei sorride. “È molto particolare” aggiungo.

Si siede su un cuscino. “Preferisci lo sgabello?” No, ormai mi siedo come lei, anche durante i nostri incontri. Lei non usa il lettino, ma soltanto grandi cuscini contro la parete. Si siede voltando le spalle alla finestra, per essere in ombra, e io di fianco, per non guardarla in faccia.

Ora mi siedo sul cuscino, come lei. “Così” dico. I jeans mi tirano in mezzo alle gambe e mi muovo sui fianchi per mettermi comoda.

“Toglili, non vedi che ti stringono?”. “No, non importa”. Sotto indosso un paio di mutandine elastiche e i calzerotti al ginocchio, mi sentirei ridicola.

Mangiamo chiacchierando. Lei parla, ma non dice niente di sé. Vuole sapere del mio lavoro, di che cosa mi occupo. “Arredamento, soprattutto. Ville e giardini… Le case di quelli che contano. Mi piace, perché spesso mi tocca viaggiare…”.

“Moda?” domanda. Scuoto la testa, Luciana si occupa di moda. Ma spesso lavoriamo insieme. Non voglio parlare del mio lavoro, ho fretta di sapere di lei. “Sei sposata?” domando. È una domanda indiscreta, ma non mi importa, voglio saperlo.

Scuote il capo. Mi guarda come se mi rimproverasse. “No. Sono sola da quando è morta mia madre, otto anni fa. Mio padre ci aveva lasciate da molto tempo. Gli uomini…” E sospira. Alza il bicchiere verso di me: il vino bianco è profumato, leggermente frizzante.

Quando mi alzo per andarmene è quasi mezzanotte. Mi gira la testa, ma è soltanto una sensazione. “Grazie” dico. Mi sento goffa. Capisco che dovrei fare qualcosa, ma non so che cosa. “È stato bello, davvero”. “Sono contenta. Lo rifaremo, se vuoi”. Non si è alzata. Appoggiandosi a un gomito si è allungata sul cuscino rosso rubino.

Una macchia bianca, stupenda, su quel rosso vivo. Deglutisco impacciata. “Ciao, chiudi tu la porta”. Mi fa un cenno con la mano e si lascia cadere all’indietro. Non voglio andare via. “Devo aiutarti?” domando. La cosa più stupida che mi è venuta in mente. “No, vai… vai, ora”.

Fuori dall’uscio mi appoggio al muro delle scale. Cerco di non pensare alle mie sensazioni. Non voglio capire che avrei voglia di tornare indietro. Da lei.

A casa cerco la rivista, riguardo il servizio, le stanze della casa che non conosco. Il bagno con la vasca a livello del pavimento e il tatami in terra per il relax. La serra, un corridoio a vetrate che unisce la camera da letto al salotto, con piante esotiche, alcune gigantesche. Il letto: un materasso in terra con trapunte e cuscini di seta colorata in diversi toni di rosso e arancio, e il baldacchino, tra ferri dorati che si intrecciano a tessuti leggeri di seta. Tutto è bianco o rosso arancio, rosso rosa, rosa cupo. Giallo, giallo arancio. Non esistono altri colori, anche sulle pareti, nei quadri: l’unica variante è il verde cupo e minaccioso delle piante, dovunque, a gruppi invadenti.

Il salotto dove siamo state, dove abbiamo cenato. Nel servizio sembra più grande, più impersonale. I cuscini di seta rossa, su quei cuscini c’è lei; anche nella fotografia indossa un caftano bianco, lo stesso. Sorride.

Un languore in mezzo allo stomaco che non voglio definire.

(Continua in libreria…)

 

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