Considerata una pioniera della letteratura fantascientifica, che nel 1940 si afferma con la distopia “Kallocaina” (otto anni dopo “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley e otto anni prima di “1984” di George Orwell), la scrittrice svedese Karin Boyle (1900-1941) è una fra le voci più lungimiranti del Novecento, in grado di ricordarci i limiti del controllo e del fanatismo di fronte alla purezza della verità – L’approfondimento sul suo romanzo più celebre, che dopo tanti anni è tornato nelle librerie italiane

Schiavi della verità: ecco come sono i personaggi di Kallocaina, un romanzo complesso e magnetico dato alle stampe nel 1940, e che da noi la casa editrice Iperborea aveva proposto una prima volta nel 1993, per poi riportarlo ora in libreria nella traduzione di Barbara Alinei.

Sono passati vent’anni dalla sua prima edizione italiana, rimasta a lungo fuori catalogo, e ben ottantadue anni dal momento in cui la poetessa svedese Karin Boye (1900-1941) ha trovato il coraggio di pubblicarlo. Eppure, a leggerlo adesso, Kallocaina mantiene ancora il suo fascino, la sua profondità, le sue suggestioni inquietanti.

Copertina del libro Kallocaina di Karin Boye

Ambientata in una nazione che viene chiamata lo Stato Mondiale, questa distopia racconta infatti la storia di una società guidata da un’oligarchia di burocrati, intenzionati a garantire il bene comune a qualunque costo attraverso le loro misure dittatoriali.

Niente pietà, niente segreti, niente bugie: per la popolazione l’importante è accettare le regole imposte dall’altro senza discutere né, tanto meno, nutrire sogni di libertà.

A rendere possibili una volta per tutte le intenzioni del governo sembra essere l’ingegno di Leo Kall, un chimico, che nel suo diario privato spiega come sia riuscito a inventare una droga rivoluzionaria – la kallocaina, per l’appunto, infallibile siero della verità. Il sostantivo deriva sì dal nome del suo inventore, ma in svedese vuol dire anche freddo e soprattutto vocazione, appello.

Ed ecco infatti che la kallocaina diventa ben presto per il protagonista una sorta di chiamata all’azione, un banco di prova che lo costringe a porsi dei dilemmi etici e a scegliere da che parte schierarsi – se da quella del potere centrale, che vuole sradicare ogni pensiero sovversivo servendosi della sua invenzione miracolosa, o da quella di un’intera comunità che rischia di rinunciare per sempre a ogni spiraglio di indipendenza.

La scrittura di Karin Boyle, autrice nata a Göteborg all’inizio del secolo scorso e ancora amata in patria per i suoi versi moderni e musicali, ci trascina così in un vortice di angosce e di sotterfugi, di domande e di pericoli, che stringono lo scienziato in una morsa e tengono chi legge con il fiato sospeso, per l’ansia di vederlo schiacciato da un regime privo di scrupoli.

Contemporaneamente, il suo stile scorrevole e limpido, sempre ricco di eleganza e di originalità, ci spinge a riflettere sulle derive del totalitarismo e a ipotizzare dei parallelismi con il contesto sociopolitico in cui l’autrice ha vissuto in prima persona. La sua posizione di donna bisessuale, pacifista e anticonformista, d’altronde, ha suscitato più di uno scandalo e l’ha vista lottare con sofferenza per difendere la democrazia e l’autodeterminazione.

Una battaglia che abbandonato il 23 aprile 1941, quando l’esercito nazista ha invaso la Grecia e lei ha deciso di inghiottire una dose esagerata di sonniferi per addormentarsi per sempre su una collina della città di Alingsas.

Denunciare l’orrore del suo tempo non è bastato a salvarla, ma le ha permesso di lanciare un messaggio forte e significativo, capace di arrivare fino ai nostri giorni.

Considerata una pioniera della letteratura fantascientifica, che si è affermata con Kallocaina otto anni dopo Il mondo nuovo (Mondadori, traduzione di Lorenzo Gigli e Luciano Bianciardi) di Aldous Huxley (1894-1963) e otto anni prima di 1984 (Garzanti, traduzione di Bianca Bernardi) di George Orwell (1903-1950), Boyle resta non a caso una fra le voci più lungimiranti del Novecento, in grado di ricordarci i limiti del controllo e del fanatismo di fronte alla purezza della verità.

Come se non bastasse, ad aprire gli occhi a Leo Kall sul da farsi si rivela essere un gesto quasi inaspettato di sua moglie, a dimostrazione del fatto che la libertà è figlia dell’amore e della fiducia, non del potere assoluto di uno Stato centralizzato.

Se vogliamo preservare la nostra autonomia individuale, sembra quindi ammonirci Kallocaina, non è demolendo i nostri pensieri più reconditi che ci riusciremo, ma accettando al contrario le contraddizioni della nostra natura piena di chiaroscuri.

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