Pubblicato per la prima volta negli anni ’60, “La grande fortuna” di Olivia Manning racconta la storia di Harriet, una giovane donna inglese appena sposata con Guy, della loro relazione a Bucarest e dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Sono mesi confusi, a cavallo fra il 1939 e il 1940, in una capitale minacciata dalla possibile invasione nazista. Il romanzo, però, non parla solo guerra, ma…

La grande fortuna di cui parla il libro di Olivia Manning (Fazi, traduzione di Velia Februari) è la nostra: abbiamo la possibilità di leggere una testimonianza nuova e diretta agli eventi che portarono alla Seconda guerra mondiale. E lo facciamo attraverso gli occhi di una donna inglese, Harriet, che si è appena trasferita a Bucarest con suo marito Guy.

Che questo sia un romanzo non ci può distogliere dal fatto che Olivia Manning, la scrittrice (2 marzo 1908 – 23 luglio 1980), abbia vissuto in prima persona queste stesse esperienze, essendosi trasferita in quegli anni con il marito in Romania per accompagnarlo nel suo lavoro – quello di impiegato presso il British Council di Bucarest.

La grande fortuna di Olivia Manning (Fazi)

La grande fortuna porta una nuova freschezza, un nuovo punto di vista, nuove tinte e nuova voce a una parte della storia recente che è ormai quasi diventata un genere letterario a sé: le vicende ambientate durante la Seconda guerra mondiale. Pubblicato per la prima volta negli anni ’60, infatti, La grande fortuna non risente di una maniera, di un determinato modo di parlare di guerra.

Per questo motivo ci troviamo in un’ambientazione che non è consona al genere, Bucarest, anche detta la Parigi dell’est, una frontiera completamente nuova per Harriet, il personaggio, ma anche per Olivia, la scrittrice.

Ma Harriet e Guy sono anche solo una coppia letteraria. Ai giorni nostri li chiameremmo expat, con tutto un giro di amici e frequentazioni ricche e movimentate tipico di coloro che provano a ricostruirsi una comunità fuori dal proprio paese.

Bucarest, infatti, racchiude in sé contraddizioni: una ricchezza quasi opulenta, cultura, studi e grandi ambasciate, a cui contrappone la miseria più nera che Harriet abbia mai visto. La protagonista – con la sua giovinezza e forte di un’antica sicumera imperialista – esprime pregiudizi e pareri sul nuovo paese in cui si era trasferita. Chiama “barbari” i cittadini, li trova gonfi, sia di superstizioni che di alcolici. Commenta la discreta chiusura mentale rispetto alle libertà femminili – non che Harriet sia libera di fare ciò che vuole in patria, ma arriva da un paese che lei ritiene superiore per cultura e attività.

La guerra è distante, eppure vicinissima, presente in ogni conversazione, pensiero, e addirittura sogni.

Il romanzo, però, non parla solo guerra. Soprattutto racconta di relazioni tra esseri umani. Quella tra Harriet e Guy, in prima istanza, i Pringle. Una coppia di sposini che si conosce ancora davvero molto poco. Harriet non sa quasi niente di Guy, e noi lettori scopriamo insieme a lei, un pezzo alla volta, il carattere socievole dell’uomo – con un gran giro di amici e conoscenti chiassosi di cui lei non era a conoscenza. Ne scopriamo anche la generosità e gentilezza verso di loro, e una certa reticenza, invece, verso la moglie. Harriet, prova, sopra a ogni cosa a integrarsi, a trovare il suo posto.

Di questo gran giro di amici chiacchieroni e dalla facilità al bicchiere, conosciamo approfonditamente Yakimov (alcuni capitoli del libro sono interamente dedicati al suo punto di vista) un nobile decaduto, britannico ma di origini russe, che vive di espedienti e di colpi di fortuna, sempre in bolletta, ma sempre con qualche asso nella manica; Clarence, il diretto superiore di Guy;  Sophie, un’indipendente studentessa romena che ha chiare mire espansionistiche su Guy, e molti altri. Sono tutti principi e principesse, o intellettuali e borghesi i conoscenti di questo gruppetto di universitari.

Dai ristoranti alle feste private, dalle (rare) aule universitarie ai salotti, comincia a serpeggiare il terrore della guerra, la disfatta degli alleati, il crollo della Polonia, l’esercito nazista alle porte.

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I moltissimi personaggi danzano ancora sulle note finali di un valzer ottocentesco, tra sale da tè e manierismi, eppure, al contempo, sono proiettati verso il futuro che la la Seconda guerra mondiale sta apparecchiando per tutti – senza che loro ne siano testimoni diretti.

In questo scenario Guy decide di mettere in scena uno spettacolo, coinvolgendo studenti e amici nella recitazione. A Harriet il progetto appare un’idea scriteriata, ancor più nella precaria situazione internazionale. La grande fortuna è il primo romanzo della Trilogia dei Balcani, un romanzo di atmosfera e, come gli altri, anche un libro di viaggio.

La stessa Manning – che fu scrittrice di finzione e non, reporter e poetessa – fu una rifugiata in Romania durante la Seconda guerra mondiale, e questo le permise di osservare con un certo distacco non solo le imprese militari ma anche le mancanze degli eserciti alleati.

Il suo sguardo è illuminato dai suoi viaggi, dalla sua capacità di rendere vivide le descrizioni dei luoghi che attraversa, le emozioni che sovvengono nell’approcciarsi a una cultura altra e ad altri esseri umani.

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