A metà tra il thriller e la saga familiare multi-generazionale, “La radice del male” di Adam Rapp, scrittore, produttore e sceneggiatore americano (di serie tv come “American Rust”) è un romanzo cupo, che indaga sulla violenza intrinseca nella società americana e racconta come nasce un serial killer, interrogandosi anche sul problema della salute mentale e sul tema della cura di chi ci sta accanto
Elmira è una tipica cittadina americana di provincia nello stato di New York, dove la vita scorre normale secondo i dettami del sogno americano, tra successi e inevitabili fallimenti. Siamo nell’agosto inoltrato del 1951 e una tredicenne, Myra, si trova in un diner, immersa in una lettura entusiastica de Il giovane Holden (piccola curiosità: il capolavoro di Salinger fu pubblicato negli Stati Uniti nel luglio 1951, appena un mese prima degli avvenimenti).
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Myra viene approcciata dal classico biondino americano: non uno qualunque, si tratta infatti di Mickey Mantle, leggendario giocatore degli Yankees. Dopo essere stata accompagnata a casa, Myra viene a conoscenza di un triplice omicidio nel vicinato. Il sospettato, le riferiscono, sembrerebbe un giovane ragazzo americano, il “classico” biondino apparentemente innocuo, che non farebbe male a una mosca…
Con tali premesse incomincia La radice del male di Adam Rapp (titolo originale Wolf at the Table), pubblicato da NN editore, con la traduzione di Michele Martino. L’idea alla base è che il male non si annida solo dietro l’angolo di casa, ma si può nascondere anche tra le mura domestiche. La domanda fondamentale è: crediamo di conoscere davvero i nostri cari?
Tra i temi affrontati ci sono infatti i legami familiari e come essi cambino nell’arco di decenni. Rapp dà voce alla famiglia Larkin: Ava e Donald, le quattro figlie Myra, Fiona, Lexy e Joan e il figlio reietto Alec. Si tratta di una normale famiglia americana che, a partire dagli anni Cinquanta, subisce l’inevitabile declino non tanto per il flusso della Storia, bensì per le banali conseguenze delle scelte di vita individuali.
Fiona è la figlia ribelle che non sopporta l’ordinarietà e finisce per vivere da nomade e poi in pieno clima hippie/anni Settanta in una setta di donne lesbiche che praticano il culto della fertilità. Proverà con tutto il cuore una carriera da attrice, ma senza riuscirci fino in fondo.
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Myra e Lexy sono le figlie perfette, entrambe sposate, conducono una vita ordinaria al fianco dei loro mariti e figli, una a Chicago, l’altra in Vermont. Entrambe amanti della letteratura, ossessionate una da Salinger, l’altra da Camus.
È proprio la discussione di Lexy su Lo straniero a suggerire una prima interpretazione a La radice del male: perché Meursault ha ucciso l’arabo sulla spiaggia? Se il primo colpo era per autodifesa, a che pro infierire? La banalità del male, direbbe Hannah Arendt.
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Nel ritratto familiare di Rapp ad uscirne male sono soprattutto le figure maschili. Per primo il capofamiglia Donald, descritto come reduce di guerra, “chirurgico, senza emozioni”, seguito dall’unico figlio maschio, Alec, segnato dal trauma dell’abuso. È lui il “lupo” cattivo della famiglia, il capro espiatorio della società, la falla nel sistema del grande disegno americano.
Allo stesso modo Denny, il futuro marito di Myra e il loro figlio Ronan sembrano subire la stessa sorte, anche quando tutto sta andando per il verso giusto, vittime di un male intangibile e ineluttabile.
La parabola esistenziale di Alec è quella del ragazzo sfortunato abbandonato dalla famiglia, nonostante i tentativi della sorella e della madre: è il figlio problematico a cui l’America cattolica e bigotta volta le spalle.
Dai piccoli furti in chiesa allo sviluppo patologico di una mentalità da serial killer, che ricorda per certi versi la storia di Jeffrey Dahmer, assistiamo alla degenerazione del tipico ragazzo americano di provincia, non laureato, che passa da un lavoretto all’altro, legale o meno, al limite tra apatia e disperazione.

Adam Rapp nella foto di marsandsham
Rapp sembra descrivere la violenza intrinseca nella società americana e raccontare di come essa possa scaturire ovunque, alimentata da piccoli traumi. Ad esempio, in più di una scena, il male stesso si manifesta sotto forma di una luce, un segnale quasi sovrannaturale che induce nei personaggi (maschili) pensieri intrusivi: il male esiste e può essere espresso per distruggere gli altri oltre che se stessi.
La storia familiare ha anche dei risvolti di vita reale: la figura di Myra, donna resiliente nonostante i traumi affrontati, è ritratta sul modello della madre dello stesso autore, un’infermeria carceraria che si trovò davanti il famoso serial killer John Wayne Gacy, giustiziato nel 1994 a Joliet, in Illinois.
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A metà tra il thriller e la saga familiare multi-generazionale, Adam Rapp ricorda alcuni libri di scrittrici e scrittori americani come Joyce Carol Oates, Dennis Lehane o il Jonathan Franzen di Crossroads più che de Le correzioni: la famiglia Larkin è profondamente cattolica e tutti i figli, in qualche modo, vivono con sofferenza l’allontanamento dalla tradizione.
Attraverso dei personaggi autentici, Rapp riesce nel tentativo di ritrarre la storia di una famiglia nella sua disgregazione, facendo risaltare il rapporto conflittuale tra l’individuo e l’ambiente che lo circonda.
La radice del male è un romanzo cupo che prova a raccontare come nasce un serial killer interrogandosi anche sul problema della salute mentale e su come (e se) ci prendiamo cura di chi ci sta accanto.
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Fotografia header: La radice del male di Adam Rapp (nella foto di marsandsham)