“L’Eredità di Villa Freiberg” è un romanzo in cui convergono molte storie raccolte negli anni e che mi hanno aiutata a comprendere un fatto terribile del nostro passato da una prospettiva diversa e con maggiore verità. Romina Casagrande racconta il suo nuovo libro, che getta luce su una pagina poco conosciuta della storia italiana…

L’Eredità di Villa Freiberg è un romanzo in cui convergono molte storie raccolte negli anni e che mi hanno aiutata a comprendere un fatto terribile del nostro passato da una prospettiva diversa e con maggiore verità.

Come per tutte le narrazioni, è difficile dire l’istante preciso in cui abbia preso forma. Villa Freiberg esiste nella realtà – nella realtà del territorio in cui vivo –  le vicende del suo travagliato recupero, di cui le protagoniste mi hanno reso parte, affondano nel coraggio e nella testardaggine di due donne straordinarie, a tratti persino bizzarre nella loro tenacia, seppur tanto diverse: l’ultima proprietaria, erede di un’antica famiglia altoatesina che trascorse gli ultimi anni della sua vita in completa solitudine, barricata nella casa di famiglia distrutta dal peso degli anni e delle vite di chi l’aveva abitata, piena non più di passi e di voci, ma soltanto di sacchi e immondizia che ricoprivano una collezione di cui apparentemente non restava più traccia. E la donna che in modo del tutto inaspettato la ricevette in eredità, per salvarla e custodirla come chi prima di lei non era riuscito a fare.

È una storia di cura e di amore, insieme a tutti i dubbi e alle paure, agli sbagli, che spesso accompagnano questo sentimento. Di dare e ridare vita: uno dei doni più straordinari sul quale poggia il nostro essere umani.

La trama, che unisce indissolubilmente diverse generazioni, il passato e il presente, trova raccordo in un momento tragico che funge da catalizzatore, ma anche da propulsore, e che muove in una direzione drammaticamente, incomprensibilmente opposta: il cieco desiderio di annientare i più deboli della società, le frange cosiddette malate, inutili, ‘vite indegne di essere vissute’. Spinti da un disprezzo annichilente nei confronti di chi invece, proprio perché senza difese, dovrebbe essere protetto. L’Aktion T4 fu un’operazione di eugenetica nazista che per molti aspetti preparò agli stermini dei campi di concentramento (i dottori che lavorarono nei campi di concentramento arrivavano molto spesso dai centri della Aktion T4 dove venivano eliminati pazienti psichiatrici, malati con disabilità di qualsiasi entità, anche lieve, e dove si procedeva alla sterilizzazione forzata) e che fece molte vittime in Italia, si pensi all’ospedale psichiatrico di Pergine, i cui pazienti venivano trasferiti in Austria e lì uccisi.

Nel romanzo i protagonisti portano a galla vari risvolti, non la ragione assolutoria dei vincitori, non soltanto la prospettiva delle vittime, ma quella di chi dovette decidere, scegliere per i propri mariti, le proprie mogli o figlie, i propri bambini, con dubbi e ripensamenti che arrivano fino a noi, al nostro presente.

La narrazione nasconde i fili e li trasforma in tessuto, non rende visibile la finzione che è restituire verità senza deformare. La narrazione cerca, “erra”, e qui prende forza da una riflessione che mi ha segnata molto in questi anni: cosa è disposta a sacrificare di sé una società, fatta di noi, quale parte – come in un cerchio di cui siamo gli autori della conta – è rinunciabile per la sopravvivenza dei più? A quale costo? La Aktion T4 non fu mai dichiarata ufficialmente dal governo nazista, ma si compone di varie fasi che le permisero di agire ben oltre la sua ipotetica data di fine. In tutte le sue declinazioni i colpiti sono stati sempre i più indifesi tra gli indifesi, il futuro che ogni società protegge in quanto ancora da scrivere, i bambini, portatori di ipotetiche ‘tare genetiche’, persino neonati. E gli ‘inutili’, portatori di disabilità.

Ma chi si colpiva davvero? Cosa sapevano i genitori, i fratelli, i figli, di coloro che sarebbero partiti per “essere curati” con carte firmate da chi ne aveva la responsabilità? E come sopravvissero al dolore della loro scomparsa, al senso di colpa. Chi furono le migliaia di donne costrette alla sterilizzazione forzata? Cosa accadde alle vittime?

I manuali di Storia propongono certezze levigate. La voce dei protagonisti racconta altre verità, più sfaccettate, più complesse. Non sono eccezioni alla ricostruzione storica, sono gli echi che la fanno traballare e, a volte, ripartire. La storia di Benjamin, il bambino che scompare da Villa Freiberg, è quella del dodicenne Rudolf, rinchiuso in un ospedale psichiatrico perché muto – non per una malattia trasmissibile geneticamente, ma per un incidente che lo aveva lasciato senza la facoltà di esprimersi a voce – e della nipote che qualche anno fa, a partire dalla casa in cui aveva abitato quello zio di cui mai nessuno parlava, ha deciso di ritrovarne le tracce. Ma è anche la storia del piccolo Pepe, altoatesino il cui nome è scritto sulla lista della Morte, miracolosamente salvato dal coraggio di una madre. Morte, vita. La storia di Ursula, la ragazzina sterilizzata, è quella di Maria, troppo libera, troppo disinvolta, o dell’altoatesina Crescenza. Sono i parenti delle vittime ascoltati, le fotografie dei bambini, gli album spalancati a guidare la trama e a unire tutti i fili. E una domanda: cosa resta.

Ho avuto la fortuna di entrare a villa Freiberg – che nella realtà ha un altro nome – quando era poco più che un ammasso di polvere e immondizia. Ora è diventata custode di Memoria, circondata da alberi antichi, superstite di un tempo che ha lasciato gli eredi di vinti e vincitori a fare i conti con i propri demoni. Un’eredità che da fisica diventa figurata e metaforica, è il filo rosso che lega le generazioni nel segno di una responsabilità innanzitutto verso sé stessi e il nostro considerarci umani. Ma le storie non cantano, non risuonano, se le pareti della stanza restano mute. Chi le ascolta le propaga. E ne siamo tutti parte, chi le ha vissute, chi sceglie di scriverle, chi sceglie di leggerle, più che mai.

L’eredità di Villa Freiberg, edito da Garzanti, è il nuovo romanzo di Romina Casagrande, già autrice de I bambini di Svevia (2020) e de  I bambini del bosco (entrambi usciti sempre per Garzanti).

Laureata in lettere classiche e appassionata di storia, Casagrade ha collaborato con alcuni musei, realizzando percorsi didattici interdisciplinari, e vive e insegna a Merano, in provincia di Bolzano.

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