Per Franco Baresi, capitano del Milan e della Nazionale, il calcio è stata la passione di una vita. “Libero di sognare” è l’autobiografia di un campione straordinario. Nel libro, però, non c’è spazio solo per le rievocazioni trionfali, ma anche per le paure più umane, i momenti di sconforto, gli errori e i rimpianti – L’approfondimento

Se un regista (e non un regista qualsiasi, ma Werner Herzog) sostiene che avrebbe sempre desiderato comprendere il cuore dell’uomo e gli spazi dell’Amazzonia come lui comprendeva gli spazi e i tempi sul campo, significa che Franco Baresi è stato forse qualcosa di più che un grande calciatore. Non importa la squadra per cui si tifa: per chiunque ami il calcio Baresi è stato contemporaneamente il simbolo di una cesura fondamentale nell’interpretazione e nella tattica del gioco – perché anche il calcio ha un’evoluzione e una storia, e non trascurabile – e un uomo che appariva dotato di un intuito puro, una capacità innata di comprendere tempi e luoghi dell’azione. Come un predestinato.

Libero di sognare, edito da Feltrinelli, è l’autobiografia di quel calciatore, scritta con un tono semplice e familiare, ma sentito. Baresi racconta le sue origini, rievoca difficoltà, tenerezze e nostalgie di un ragazzo del 1960 nella campagna di Travagliato in provincia di Brescia. Cresciuto in un ambiente contadino, taciturno, forse introverso ma profondamente legato ai suoi affetti, e soprattutto al pallone. Il gioco del calcio accompagna ogni suo momento, è il suo istinto, il modo per esprimersi, ciò che semplicemente lo rende felice: “Non giocavamo per battere un avversario, per sentirci migliori o più forti; in quel tempo che non bastava mai, eravamo liberi: senza costrizioni, senza preoccupazioni, senza timori”.

franco baresi libero di sognare

Ci sono delle costanti che attraversano i ricordi di Baresi. La ricerca di un luogo sicuro, intimo, che sia il casale dov’è cresciuto, la squadra dell’oratorio di Travagliato o Milanello e il Milan, il suo primo e unico club. Allo stesso tempo, la consapevolezza del dolore e delle avversità che può avere chi si ritrova giovanissimo orfano prima della madre e poi del padre, e riesce a trasformare questa perdita enorme in una fonte di ulteriore determinazione. E poi ovviamente c’è il pallone, che sembra essere quasi un prolungamento del suo corpo, così come il campo di gioco – quale che sia – diventa una casa, uno spazio di cui Baresi comprende i segreti perché sembrano respirare insieme, vivere in simbiosi.

Foto di Franco Baresi

Franco Baresi (foto di Deliveryarts)

La narrazione segue le tappe della sua carriera, da quando il futuro capitano del Milan e della nazionale è un ragazzino di provincia, dal fisico apparentemente gracile e legato a una famiglia numerosa e felice, fino al grande salto che lo porta a misurarsi da solo con Milano, improvvisamente catapultato nel mondo degli adulti, del calcio professionistico. E da lì in poi, la grande ascesa: all’inizio l’emozione di stare a fianco di leggende come Rivera, Nereo Rocco e Liedholm, poi i mondiali dell’82 in cui viene convocato pur senza scendere mai in campo, e infine i cicli di vittorie con il Milan di Sacchi e Capello, in cui Baresi contribuisce a una trasformazione radicale della concezione del gioco e del proprio ruolo, tanto che alla fine della sua carriera il club deciderà di ritirare per sempre la sua storica maglia numero 6. “In pochi anni, partendo da un’idea e dall’ostinato desiderio di realizzarla, avevamo portato avanti la nostra rivoluzione, vincendo ed entusiasmando il pubblico di tutto il mondo”.

Non c’è spazio, però, solo per le rievocazioni trionfali. Questa storia racconta anche le paure più umane, i momenti di sconforto, gli errori e i rimpianti.  Sia quelli del ragazzo sia dell’adulto che passa attraverso un percorso di maturazione, accompagnato costantemente dalla gioia pura di poter fare del calcio il proprio linguaggio, la traduzione migliore dei sentimenti, il modo per reagire a ogni difficoltà che qualsiasi percorso di vita porta con sé.

Per questo il filo conduttore che tiene insieme ogni capitolo è la partita che riassume tutto: la finale di Pasadena nel luglio ’94. Quel Brasile-Italia che Baresi non avrebbe dovuto giocare dopo un infortunio durissimo proprio all’inizio del mondiale, e in cui invece scenderà in campo grazie un recupero miracoloso, disputando una partita praticamente perfetta, fino ai calci di rigore. Tutti sappiamo come è andata a finire. Baresi scopre che non sempre le storie hanno un lieto fine, che ogni campione può scoprirsi umano. Ma anche che la cosa più importante è misurarsi alla pari con ciò che abbiamo di fronte, nel campo che si è scelto, che per lui è il campo di gioco. Là dove si è sempre sentito libero.

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