Provate un Michael Connelly e vedrete: trentacinque romanzi (da cui sono stati tratti film e serie) non vi sembreranno abbastanza. Per Fabiano Massimi, che ne parla su ilLibraio.it, l’autore americano “è forse il più abile degli artigiani oggi attivi nel crime (giallo, poliziesco, thriller, legal thriller)”…

La morte è il mio mestiere, ci guadagno da vivere, ci costruisco la mia reputazione professionale. Ho sempre pensato che il segreto nel trattare con la morte consistesse nel tenerla a debita distanza. Questa è la regola: mai permetterle di avvicinarsi sino a sentirne il fiato sul collo”.

A sedici anni Michael Connelly faceva il lavapiatti nel ristorante di un hotel sul lungomare di Fort Lauderdale, in Florida. Un lavoretto per guadagnare qualche dollaro mentre completava gli ultimi anni di liceo e cercava di capire cosa fare della sua vita. Fino a quel momento non aveva un’idea precisa, e certo sarebbe rimasto più che stupito se qualcuno gli avesse detto cosa lo aspettava da lì a vent’anni. Ma una sera, finito il turno al ristorante, mentre rientrava stanco morto a casa sul suo vecchio Maggiolino si fermò a un semaforo e la sua vita cambiò. Stava decidendo se aspettare il verde oppure bruciare il rosso – in strada oltre a lui non c’era nessuno – quando all’improvviso vide un uomo arrivare di corsa, in fuga da qualcosa o da qualcuno, fermandosi solo un attimo per nascondere un fagotto tra i cespugli prima di ripartire di gran carriera. Stupito, il giovane Connelly lo seguì in auto fino alla sua destinazione, un bar malfamato con davanti file e file di motociclette. Poi tornò indietro e, attento a non farsi scorgere da nessuno, recuperò il fagotto dal cespuglio.

Dentro c’era una pistola.

Connelly rimise tutto al suo posto e telefonò al padre, che gli disse di aspettarlo lì mentre avvertiva le autorità. Un’ora più tardi, il ragazzo si trovava nella sala interrogatori di una stazione di polizia, unico testimone – per quanto alla lontana – di un omicidio. Il detective che lo aveva accolto gli chiese di tentare un riconoscimento: aveva fatto arrestare tutti gli uomini presenti al bar malfamato e li aveva fatti schierare oltre un vetro a specchio. Connelly acconsentì, ma con sua sorpresa l’uomo che aveva abbandonato la pistola non era tra quelli fermati dalla polizia. Il caso non venne mai chiuso, e il detective rimase convinto che il ragazzo avesse avuto paura di identificare il colpevole, cosa che non gli perdonò mai. Ma Connelly sapeva ciò che aveva visto, e soprattutto ora sapeva cosa voleva fare della sua vita: raccontare proprio quel mondo, proprio quella vita. Diventare un esperto di detective e scriverne le storie.

Avvocato di difesa di Michael Connelly

Quarantotto anni dopo, Michael Connelly è uno dei thrilleristi più famosi e letti al mondo, autore di trentacinque romanzi tradotti in decine di lingue e padre di personaggi ormai passati nell’immaginario collettivo come Hieronymus “Harry” Bosch, infallibile detective della Omicidi di Hollywood, e Michael “Mickey” Haller, cinico avvocato di difesa che scorrazza per Los Angeles su una Lincoln trasformata in un ufficio mobile.

Dai suoi libri sono stati tratti film stellari Debito di sangue, con Clint Eastwood nel ruolo del profiler cardiopatico Terry McCaleb; The Lincoln Lawyer, con Matthew McConaughey a impersonare Mickey Haller – e serie televisive di culto – l’eponima Bosch, ormai alla settima stagione su AmazonPrime; un remake a episodi di The Lincoln Lawyer –, mentre si parla da tempo di una traduzione cinematografica del thriller cui il suo nome è forse più legato, Il poeta, pionieristica caccia al serial killer pubblicata negli stessi anni in cui l’altro maestro del genere, Thomas Harris, dava alle stampe Il silenzio degli innocenti.

Il poeta di Michael Connelly

Nel Poeta, che ha generato un sequel e dato vita a un terzo personaggio ricorrente, il reporter di nera Jack McEvoy, Connelly tornava al suo primo amore, l’indagine giornalistica, testimoniato anche da un volume di true crime uscito in Italia con il titolo Cronaca nera. È infatti come giornalista che il romanziere iniziò la sua carriera, prima in Florida e poi, dopo essersi segnalato per il Premio Pulitzer grazie a un’inchiesta sui sopravvissuti a un incidente aereo, nel prestigioso Los Angeles Times.

Trasferirsi nella Città degli Angeli, lo sfondo di quasi tutti i suoi romanzi, fu il culmine di un percorso e l’inizio di uno nuovo. Amante dell’hard-boiled, Connelly riuscì a prendere in affitto l’appartamento in cui, secondo Raymond Chandler e Robert Altman, aveva vissuto nientemeno che Philip Marlowe, e da lì, dopo cinque anni di tentativi segreti – notti e notti alla tastiera senza che nemmeno i suoi colleghi più stretti ne avessero il sospetto – prese a produrre narrativa di qualità invariabile, almeno un romanzo all’anno, costante come un metronomo.

Il primo caso di Harry Bosch, racconta l’autore, nacque da un caso testimoniato come giornalista, così come molti dei dettagli che rendono Bosch un personaggio tanto “vero”, e come le procedure – investigative, legali, giornalistiche – che l’autore racconta con dovizia di dettaglio e assoluta onestà. Qui il giornalista torna fuori con prepotenza: prima di iniziare a scrivere un romanzo, Connelly passa infatti mesi a intervistare poliziotti, tecnici di laboratorio, medici legali, criminologi, specialisti di ogni genere, spesso inoltrandosi in territori sconosciuti tanto a lui quanto al pubblico ma arrivando sempre a padroneggiarli con mirabile naturalezza. La stessa che, riversata sulle pagine dei suoi libri, li rende così solidi da sembrare, più che fiction, reportage.

La morte è il mio mestiere di Michael Connelly

 

Prendete il penultimo romanzo pubblicato in Italia, La morte è il mio mestiere (l’ultimo, La legge dell’innocenza, è recensito qui). Jack McEvoy, il giornalista che in passato ha sconfitto il Poeta e lo Spaventapasseri – due diabolici serial killer capaci di approfittare di un grande punto debole di noi tutti: l’incredulità che certe cose possano accadere davvero –, sta indagando su una serie di uccisioni all’apparenza scollegate quando capisce che un trait d’union esiste eccome: tutte le donne morte avevano fatto un test genetico per ritrovare legami famigliari recisi dal tempo o dalle circostanze della loro vita. Seguendo questa pista, McEvoy si rende presto conto che l’industria del DNA, in forte ascesa negli Stati Uniti e nel mondo, non ha ancora regole sufficienti a proteggere da tutta una serie di usi e abusi chi consegna il proprio materiale genetico. In particolare – ed è una rivelazione per qualunque lettore – esistono studi scientifici che mettono in correlazione determinati marker genetici con comportamenti sociali “deviati”. Ed ecco il genio di Connelly: prendere una notizia sconcertante, studiarla, appropriarsene e poi metterla al centro di un thriller in cui si immagina che un serial-killer possa voler usare un dato marker genetico come bersaglio. Al termine della lettura, mozzafiato come sempre, resta addosso il disagio di sapere che il mondo intorno a noi è molto più scuro e pericoloso di quanto credevamo – e state certi che prima di fornire il vostro DNA a un qualsiasi laboratorio ci penserete due volte.

Michael Connelly è forse il più abile degli artigiani oggi attivi nel crime (giallo, poliziesco, thriller, legal thriller) e lo dimostra romanzo dopo romanzo proprio con la sua capacità di costruire meccanismi sorprendenti ma realistici, personaggi originali ma genuini, resoconti minuziosi ma comprensibili di realtà anche molto complesse (altro esempio: la dipendenza da ossicodone, che in America è diventata in anni recenti una piaga endemica).

Lo spazio concesso alla fantasia può talvolta sembrare impalpabile, nel taglio iper-fattuale e d’azione dei suoi romanzi, ma le psicologie dei personaggi aprono spiragli toccanti anche nei passaggi più serrati, che non conoscono un momento di stanca ma sanno indugiare dove è necessario, ricordando al lettore che sì, Bosch, Haller, McEvoy, McCaleb e Renée Ballard (l’ultima nata, una detective della Omicidi che ha denunciato un superiore e perciò è stata destinata all’Ultimo Spettacolo, il temuto turno di notte tra le strade di Hollywood) saranno anche capaci di cose straordinarie, ma restano esseri umani – persone, non personaggi – e come tali vanno raccontati, senza fare sconti alle loro debolezze, piccolezze, meschinità, cadute. Un’onestà narrativa che è la cifra dei maestri e produce assuefazione.

Provate un Michael Connelly e vedrete: trentacinque romanzi non vi sembreranno abbastanza.

L’AUTORE – Fabiano Massimi è nato a Modena nel 1977. Laureato in Filosofia tra Bologna e Manchester, bibliotecario alla Biblioteca Delfini di Modena, da anni lavora come consulente per alcune tra le maggiori case editrici italiane.

L’angelo di Monaco è stato l’esordio italiano più venduto alla Fiera di Londra 2019: un thriller in equilibrio tra realtà storica e avvincente finzione, un viaggio all’inseguimento di uno scampolo di verità in grado, forse, di restituire dignità alla prima, vera vittima della propaganda nazista: la giovane e innocente Geli Raubal.

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Il suo ultimo libro è Il Club Montecristo (Mondadori, 2021), giallo umoristico su carcere e relazioni.

Qui i suoi articoli scritti per ilLibraio.it.

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