Tommaso Soldini, nato a Lugano nel ’76, ha pubblicato diversi libri di prosa, saggistica e poesia. “L’inguaribile” è il suo secondo romanzo: l’autore si confronta con temi come la violenza e il desiderio – Su ilLibraio.it un estratto

Tommaso Soldini è nato a Lugano il 21 settembre 1976. Ha studiato a Lugano e Lucerna; si è laureato in lettere all’Università di Friburgo e poi ha trascorso un anno a New York, dove ha partecipato, nel 2003, poco prima della guerra in Iraq, alla più grande manifestazione pacifista della nostra storia. Il tema della violenza lo angustia da allora, ed è al centro del suo secondo romanzo, L’inguaribile (Marcos y Marcos), accanto a quello del desiderio.

Non si tratta quindi di un debutto: dal 2004 l’autore insegna italiano alla Scuola cantonale di Bellinzona e ha pubblicato diversi libri di prosa, saggistica e poesia: Ribelle di nemico privo (2004, poesie, Alla chiara fonte); L’animale guida (2009, racconti, Casagrande); Lato east (2011, poesie, Sottoscala); Uno per uno (2013, romanzo, Casagrande); La vera storia della scarlattina (2014, racconto per bambini, Cascio Editore); Negli immediati dintorni (2015, guida letteraria collettiva, Casagrande); Discorsi sulla neutralità (2019, opera collettiva, Casagrande).

Tommaso Soldini

La trama de L’inguaribile ci porta a conoscere due personaggi molto particolari: quando Gemma lo lascia all’improvviso, Michele si sente mancare la terra sotto i piedi. Schivando la collega Giorgia, pronta a offrirgli consolazione, si immerge nel suo lavoro al giornale, dove scrive lunghi articoli di cronaca giudiziaria. Il caso scottante di Roby Ratter, noto neonazista che prima truffa un amico e poi cerca di ucciderlo per non farsi smascherare, gli offre un’illuminazione inaspettata. Ma Gemma scompagina ogni tentativo razionale di comprendere, dileguandosi, con il suo inconfondibile cappello rosso, oltre la porta di uno swinger club. Michele la segue ciecamente. Come un fiabesco cavaliere innamorato, sventa tranelli, affronta labirinti, si crede capace di superare ogni prova per riconquistarla…

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

(…)

La donna ricominciò a parlare di sé e di quella prima notte in cui la sua esistenza aveva trovato l’indirizzo che nemmeno sotto ipnosi sapeva di, quando Miché, ancora intento a gestire interesse per le narrazioni personali, spasmi vari dovuti alla commistione di luce soffusa, alcool e seta lambente la pelle, fastidio per il trovarsi in un luogo per cui non si sentiva preparato, volse inconsciamente il capo verso il sipario verde. Un cappello rosso a larghe falde, il cappello rosso, scivolò oltre il tendame ondulato. Si alzò di scatto, rovesciando il bicchiere. “Ma che cosa fai?” imprecò la donna. “Perdonami, ma mia moglie, ecco, sai, te lo spiego un’altra volta. Adesso devo andare, voglio andare. Vedi che ho imparato in fretta?” Ribadì le scuse con le mani tese verso l’avanti, controllò il movimento del pavimento, si precipitò verso la porta. Intercettò, correndo, uno sguardo di Aida, sei certo di fare la cosa giusta?

21 aprile 2025

Dietro le tende

Perché ci sono persone che ogni anno, quando si trasferiscono nella casa di vacanza in collina, devono fare i conti con una rinnovata fila di formiche alate, che trovano nuove vie, tra il mastice vecchio e la calcina, sopravvivono agli stermini, i roghi, gli avvelenamenti? E perché invece c’è chi, poco importano le sue predilezioni naturali o indotte, convive sempre, quale che sia l’indirizzo dove sistema la propria roba, con una colonia di ragni dal corpo nero e le zampe lunghe pelose? Sono queste le domande che avrebbero potuto attraversare la mente di Michele Incassa, trentasei anni la prossima estate, un divorzio in itinere che contribuisce a curvargli impercettibilmente le spalle, due o tre manie che resistono alla pigrizia e al dubbio, quando, un giovedì 21 aprile poco dopo le undici, il giorno più propizio per rendere sul lavoro, stando almeno alle convinzioni di alcuni economisti il cui nome finisce in –man o in –liz, incendiato dalla volontà di sapere, oltrepassò il sipario verde. Che cosa si aspettava non è facile sapere. La materializzazione di tutti i suoi indicibili desideri fino a quel momento ben serrati, a doppia mandata chiave di ruggine, nella cassaforte del suo inconscio? Probabile. La scoperta, già anticipata dal coro in apertura di tragedia, della propria natura più profonda? Magari. L’orrore, la vista di cose che lui e gli altri umani non avrebbero mai voluto conoscere? Chi lo sa. Cercare una persona i cui capelli perdevano vapore sotto le larghe falde di un copricapo londinese rosso era lo scopo, il faro che teneva salda una psiche altrimenti più simile a un colapasta che a un cavolo romano. Senza difese eppure certo della propria missione, Miché allungò la mano destra per scansare il pesante drappo arbre magique. “Dài, ridi, dài, che al vecchio mondo in fondo in fondo si sta been, dài, ridi, dài, che la fortuna presto o tardi arriveràà”! Il sole sdentato di Cartoonia non intonò questa canzone per il vecchio investigatore Eddie Valiant, pingue e alcolizzato, alla ricerca dell’uomo che aveva incastrato il coniglio bianco; il buio e un silenzio stopposo furono le sensazioni che lo accolsero una volta di là. Allungò le braccia, come a ripararsi da una sventura con la falce, quindi si accorse che non era necessario, le luci c’erano, in basso, giallo selettivo, disposte ai lati di un corridoio deserto, formavano un sentiero che Miché si rassegnò a seguire. Mentre avanzava, pensava alle ragioni per cui sarebbe un giorno potuto tornare a Ondra: la Tate, senza dubbio, La vergine delle rocce e Vermeer, lanciare una Molotov artigianale all’interno di un certo negozio in Portobello Road. Si vide scappare come uno stambecco, mescolarsi alla gente assiepata alla stazione del bus, ridere da solo, gutturalmente. Il suo piede nudo toccò qualcosa di freddo, forse un cerchio di vetro, che si illuminò di azzurro. “Benvenuto nella stanza dei Proci, appoggi l’indice sullo schermo ed entri” disse una voce in falsetto mentre una corona di neon elfici schiariva un portone di legno massiccio. “La stanza dei Proci?” indietreggiò Miché “ma che?” Si accorse che stava parlando ad alta voce, con un altoparlante. Tanto vale, pensò spingendo quell’ennesima parete e respingendo un ma io che. Una stanza ampia come un chiostro e illuminata a giorno da mille candelabri appesi alle pareti ospitava un gran numero di persone accalcate, donne e uomini urlavano e bevevano vino servito in coppe di ferro da altre donne e altri uomini che proditoriamente venivano derisi dai primi. Qualcuno indossava un’armatura di pelle, altri erano invece cinti da stoffe di tela, oppure nascosti da tuniche a strisce pastellose. “Lei non è ancora vestito” lo incalzò un aiace dagli occhi viola comparso alla sua destra, più alto di Papa don’t preach ma non meno scoperto. “Si sbrighi o mancherà la scena madre”. “Sono un Prima Volta” si cautelò Miché, la guancia destra era arroventata, si domandò se le unghie avessero lasciato dei segni. “La stavamo aspettando allora. Lei è il giornalista? Mi raccomando” – gli toccò un gomito con un gomito – “quel che succede qui dentro resta qui dentro”.

(continua in libreria…)

 

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