“Morte per grazia ricevuta” è il romanzo d’esordio dell’autrice pugliese Simona Pedicini (che lavora come tanatoesteta e tanatoprattore e si è specializzata in Studi storico-religiosi e antropologici sulla morte e il lutto nel Sud Italia): una storia in cui, al di là dei generi e di ogni convenzione, la giovane protagonista vive insieme a una strana “creatura” ore euforiche e felici, almeno fino a quando, come nella più crudele delle fiabe, qualcuno mette in discussione la loro armonia e costringe Sofia a fare i conti con la realtà – Su ilLibraio.it un estratto

Per evadere da una vita domestica costrittiva – un padre autoritario che la punisce rinchiudendola nella “stanza del silenzio”, e una madre che vive solo nell’adorazione dei suoi due figli maschi e nel culto di un misterioso Bambinello di ceramica – Sofia cerca l’amore altrove e lo rivolge, fin dall’infanzia, a una strana “creatura” che con i suoi genitori frequenta la sua famiglia.

Da qui prende il via Morte per grazia ricevuta (Fandango), il romanzo d’esordio dell’autrice pugliese Simona Pedicini, che lavora come tanatoesteta e tanatoprattore e si è specializzata in Studi storico-religiosi e antropologici sulla morte e il lutto nel Sud Italia, in Studi sulla mistica femminile di epoca barocca e sulla Storia dell’anatomia sul corpo femminile, sempre di epoca barocca.

Simona Pedicini

(Simona Pedicini)

L’opera con cui arriva in libreria ci racconta una storia in cui, al di là dei generi e di ogni convenzione, Sofia vive insieme a questa creatura ore euforiche e felici.

Quelle delle fughe all’alba per raggiungere Marechiaro e stringersi al ritorno nell’odore di alghe, di scogli, di rocce bagnate dal mare; e quelle dei giochi folli nel Regno, la stanza dai mobili rosa.

Lì danzano tra nuvole di talco, i due sono infatti un Re e una Regina nel loro personalissimo Paradiso, si toccano e si accarezzano la pelle fino a farla diventare liscia come quella delle statue, si desiderano, si respirano d’un respiro carnale, si truccano, si travestono, si strappano e si scambiano il cuore, invocano la libertà di poter peccare.

Tutto è possibile in quel cerchio-mondo dove non esistono né legge né identità, il mondo della festa dove il tempo ordinario si annulla, diventando creazione allo stato puro. Almeno fino a quando un giorno, come nella più crudele delle fiabe, qualcuno mette fine a quell’armonia separandoli brutalmente, e interrompendo un gioco indicibile che ha a che fare con la nascita di una bambino celeste.

L’incanto dell’immaginazione, allora, si spezza. Sofia ripiomba nel reale, destinata a una vita lontana da Napoli e a un matrimonio combinato, ma tutto questo non le appartiene, il dolore è insopportabile e così lascia Milano per tornare a Napoli a svolgere il lavoro che è la sua vocazione – la cura dei corpi dei defunti –, alla ricerca esasperata ed egoistica della “creatura” di cui ha perso le tracce, in un mondo di amori violenti e tributi d’amore.

Copertina del libro Morte per grazia ricevuta di Simona Pedicini

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

Le lancette fosforescenti della sveglia sul comodino segnavano le 5:35 del mattino. Ero distesa nel letto della mia camera, avvolta dal buio che precede l’alba. Avevo paura di non essere ancora uscita dall’incubo: continuavo a fissare il soffitto temendo che da un momento all’altro si squarciasse.

Era il 10 settembre del 2007.

Dalle persiane chiuse della finestra non entrava nessun profumo di stimmate ma l’intenso odore del fritto dei primi bancarellai per la festa della Madonna di Piedigrotta. Mi era capitato altre volte di svegliarmi nel pieno della notte e di riuscire comunque a riaddormentarmi. Ma non quel giorno. Così decisi di alzarmi prima del solito. Da metà agosto, infatti, ogni mattino, dal lunedì al sabato, la sveglia sul comodino suonava alle 6:30. E da metà agosto tutte le mattine compivo le medesime operazioni, sempre nello stesso ordine: sorseggiavo il caffè caldo e quasi contemporaneamente fumavo la prima di una lunga serie di sigarette affacciata a una delle due finestre che illuminavano la cucina. Aspiravo il fumo della sigaretta vorace, con voluttà, felice di non dovermi più nascondere da mio padre, come era avvenuto per tutti gli anni in cui avevo vissuto a casa sua.

Secondo don Domenico Ruggiero una donna dedita al fumo non era altro che un essere immorale. Quale fosse poi il motivo di tale immoralità era questione che non volle mai spiegare a nessuno, talmente segreta da decidere di nasconderla in sé per tutta la vita.

Per anni ho condiviso con mio padre la tendenza al nascondimento. Provavo orrore per questa nostra somiglianza, e per qualunque altra cosa mi dicessero che avevo in comune con lui. Mia madre accondiscendeva alla teoria di don Domenico Ruggiero circa la dissolutezza delle donne fumatrici. O meglio rimaneva in silenzio, come dinanzi a qualsiasi altra esternazione di mio padre. Tentavo di capire dal suo sguardo o dai suoi gesti se, in quel silenzio, non celasse invece un impeto di ribellione. E lo celava difatti. L’inclinazione al nascondimento, a quanto pare, era ben radicata fra i Ruggiero. Donna Elvira Ruggiero quindi “distrattamente” lasciava aperto il portoncino del terrazzino, in modo che al mattino io potessi avere un angolo in cui occultarmi per fumare la prima sigaretta senza incorrere nelle ire di mio padre.

Ora ero affacciata a fumare alla finestra della cucina, sentivo i rumori del vico che si svegliava, salutavo Luciella e Nunziatina che ogni mattino andavano ad aprire il banco del pesce fresco.

Gli anni in casa con mio padre e mia madre erano finiti e io non avevo più nulla da nascondere.

Al rito del caffè e della sigaretta inesorabilmente seguiva quello della scelta dell’abito da indossare. Ogni giorno uno diverso. Rimanevo in piedi davanti all’armadio aperto per un tempo lunghissimo, quasi ipnotizzata dai vestiti tanto ammucchiati alla rinfusa che i colori sembravano fondersi l’uno nell’altro.

Per quel 10 settembre decisi di indossare un paio di jeans blu scuro a zampa di elefante, una magliettina nera con scollo di pizzo, degli stivaletti neri con la suola alta in gomma che mi facevano sanguinare i talloni ma che mi ostinavo a infilarmi perché me li avevi regalati tu, e sopra a tutto una giacca rossa. L’avevo comprata di quella tonalità di rosso perché mi ricordava il colore delle lingue di fuoco che circondano le anime del Purgatorio, perlomeno quelle imprigionate nelle statuine di terracotta custodite nella Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco. In fondo mi ritenevo un’anima del Purgatorio anche io: non così coraggiosa da peccare fortemente per meritare l’Inferno né così forte da resistere con coraggio al peccato per meritare il Paradiso. L’avevo comprata di quella tonalità perché piaceva a te.

“Ti sta bene, principessa”, mi avevi detto una volta.

L’ultimo gesto che sempre compivo prima di uscire da casa era prendere le due borse poggiate sulla piccola panca di legno che, sovrastata da uno specchio convesso, arredava una delle due pareti dell’ingresso. Davanti allo specchio era appesa una foto incorniciata. L’avevo voluta in quella posizione per vederla riflessa ogni volta che attraversavo l’ingresso. Avevo letto in uno dei libri presi nella biblioteca di mio padre di specchi convessi dotati di poteri magici capaci di deformare la realtà. Mi piaceva pensare che ci fosse un angolo in cui le forme di oggetti o ricordi si potessero modificare. La fotografia era in bianco e nero e non riportava alcuna data ma risaliva certamente agli anni Ottanta. Ritraeva me piccola, avrò avuto non più di sette anni, abbracciata alle due “creature ’e don Gaetano” De Rosa ai piedi del Vesuvio. Dall’espressione dei nostri visi si capiva che ci stringevamo per farci coraggio. Eravamo tre creature impaurite dai racconti di quanto fosse pericoloso il fuoco che il vulcano tratteneva dentro di sé. Lo sentivamo muoversi sotto i piedi, pronte a scappare appena lo scatto si fosse concluso.

Non immaginavamo che più pericoloso ancora sarebbe stato il fuoco che ognuna di noi portava in cuore e che davanti a quello di fuoco non saremmo potute fuggire.

Le due borse appoggiate sulla panca mi ricordavano che era giunta l’ora di uscire da casa. Avevo preso l’abitudine di prepararle la sera in modo da non perdere tempo il mattino. In una delle due, quella da uomo in cuoio nero che ricordava le valigette da medico, mettevo ogni volta un completo pulito, stirato, ben piegato e chiuso in un sacchettino trasparente. Oltre al completo, nel sacchettino di plastica riponevo anche un tubetto di fondotinta. Acquistavo quelle confezioni da Sashal, una profumeria di via Chiaia. In tutta Napoli solo lì trovavo Val, il talco che sapeva di alghe, di scogli, delle rocce bagnate di Marechiaro, oltre a una vastissima gamma di trucchi.

Se c’era una cosa che avevo imparato a fare a perfezione, era scegliere i prodotti per il trucco.

In quel 10 settembre del 2007 nella borsa in cuoio nero sistemai anche una bottiglietta di plastica trasparente riempita per metà con del liquido scuro.

In macchina pensavo che avrei dovuto portarla a lavare, che avrei voluto togliermi le scarpe, che quella mattina non avevo nessuna voglia di aspettare come era successo sino ad allora. Ogni giorno da metà agosto, dal lunedì al sabato, io aspettavo: aspettavo che venisse aperto il portone d’ingresso, e quindi aspettavo di salire le scale e poi di entrare, e una volta entrata aspettavo di sedermi e di vedere quel pezzo di cielo che si apriva dietro i vetri di una finestrella in alto a destra. Questo ogni giorno da metà agosto, dal lunedì al sabato.

Io aspettavo di vederti.

E tu arrivavi.

Ogni mattina alle 9:30 puntuali. Sempre con lo stesso abito, nonostante che nella borsa da uomo in cuoio nero mettessi ogni volta un completo pulito, stirato, ben piegato e chiuso in un sacchettino trasparente.

Quel giorno eri in ritardo. Le altre persone si erano sedute. Iniziavo a riconoscere i loro volti, a ricordare le storie che raccontavano e che mi appassionavano al punto che non mi accorsi del tuo ingresso. Avevo voglia di parlarti del mio incubo, di dirti che era il caso che portassi la macchina a lavare, che era giunto il momento per te di cambiarti d’abito perché la canottierina bianca che indossavi era sporca, forse di smalto o di rossetto o di sangue raggrumato o di qualcosa che non capivo bene cosa fosse, ma che vedevo rosso come il fuoco del Vesuvio che ci spaventava quando eravamo creature, come il fuoco che ci portavamo nel cuore.

“Mi hai portato il fondotinta?”, mi domandasti.

C’era un rumore di metallo quella mattina, un suono freddo che si faceva sempre più vicino, tanto che faticavo a udire la tua voce. Le persone intorno a noi ti osservavano sogghignando. Senza toglierti gli occhi da dosso ripetevano, uno dopo l’altro, uomini e donne, la stessa frase: “Caccia ’o figlio si si’ ’na femmena”. Poi le loro parole si sovrapponevano, arrivavano violentemente a scuoterti simili a raffiche di vento. Ti vidi vacillare. Tu non dicevi nulla. Le loro voci si confusero l’una nell’altra, erano ormai un’unica voce che non capivo più da che parte arrivasse e che riempiva ogni angolo della stanza.

Doveva essere così la voce di Dio, cupa, minacciosa, quella voce che quando ero piccola il parroco mi diceva arrivasse da chissà quale luogo del tempo o dello spazio a punire i peccatori. Per lui i soli peccatori della Bibbia erano gli abitanti di Sodoma e Gomorra e non gli uomini che avevano flagellato il Cristo.

“Vamme a truova mio figlio. Curre. Vamme a truova mio figlio”, mi urlasti d’improvviso mentre ti trascinavano via tra le risate e gli sputi delle persone, uomini e donne, chiusi in quella stanza.

Mi ricordai quando nel periodo di Pasqua chiedevo a don Tommaso di interpretare io il Cristo flagellato durante la processione della Via Crucis. E lui mi rispondeva che non era possibile perché il Cristo era puro ed era un uomo. E allora io mi chiesi come mai le persone, uomini e donne, chiuse in quella stanza avessero scelto te come Cristo, per ridere e sputare addosso.

“Vamme a truova mio figlio. Curre. Vamme a truova mio figlio. Purtammello”, urlavi.

Non capivo cosa stesse succedendo, e perché, qualunque cosa fosse, stesse capitando proprio a noi due.

Eravamo tutti peccatori, uomini e donne, chiusi in quella stanza.

Sapevo solo di doverti portare quel figlio, benché, confusa e spaventata, all’improvviso non mi ricordassi più dove fosse.

Il corridoio da attraversare per uscire mi sembrava non avesse fine, così come le scale e la strada per raggiungere la macchina. Guidai nel traffico senza sapere dove andare, guardandomi intorno se per caso avessi riconosciuto quel figlio a un incrocio, a un semaforo, in qualche negozio.

Arrivai in via Santa Brigida. La strada era bloccata da un camion. Non potevo perdere tempo. Sentivo le grida adirate degli automobilisti perché avevo lasciato la macchina aperta, ferma, là al centro della via.

“Signurì, ma ca facite? Nun putite lascià ’a machina accussi’.”

“Trase dint’ ’a ’sta machina. Movete. Levate ’a tuorno.”

Urlavano mentre mi allontanavo.

Non potevo perdere tempo. Non potevo dare spiegazioni.

Camminando pensavo che avrei dovuto portare la macchina a lavare, che era una bella giornata di sole, che avevo voglia di togliermi le scarpe. I passanti mi fissavano. Mi ero liberata della giacca e delle scarpe, quegli stivaletti neri con la suola alta in gomma che mi facevano così male ma che avevo indossato solo perché piacevano a te.

Camminavo da ore senza fermarmi, senza avvertire dolore o stanchezza. Arrivai sul Lungomare Caracciolo che era ormai sera.

“Chissà che fine avrà fatto la macchina. Dovevo portarla a lavare prima”, mi dicevo.

Dovevo trovare quel figlio. Il passo ora era sempre più veloce, quasi una corsa.

Sapevo dove andare.

La chiesa di Santa Maria di Piedigrotta era gremita di fedeli che cantavano la serenata alla Madonna. L’avrei intonata anche io se solo avessi saputo le parole. Avrei potuto inventarla se solo avessi conosciuto parole d’amore.

Ero ferma sull’ingresso principale della chiesa con gli occhi fissi sull’altare maggiore con la statua in legno della Vergine con il Divino Infante seduto sulle sue ginocchia. Cercai di farmi largo tra la folla dei fedeli. Volevo arrivare sino alla statua della Madonna e strapparle dalle braccia quel bambino per portarlo da te, dicendoti che avevo finalmente trovato tuo figlio. Eppure, c’era qualcosa che mi tratteneva dal salire sull’altare. Era il pensiero che anche quella Vergine fosse una madre e che avrebbe provato dolore se le avessi sottratto il figlio, come effettivamente successe che aveva sofferto quando glielo avevano portato via per condannarlo a morte, come era successo a mia madre quando le avevano portato via il suo piccolo Gesù e il suo Antonio, come era accaduto anche a me prima di quel 10 settembre 2007.

Come era accaduto anche a te, ma molti anni prima di quel 10 settembre del 2007, quando noi i cuori li avevamo ancora e su di essi il vento soffiava lieve.

Eravamo donne cui avevano strappato il cuore. Come nel mio incubo.

(continua in libreria…)

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