“Ogni volta che ti picchio” di Meena Kandasamy, poetessa, scrittrice e traduttrice indiana, è il racconto di una donna che, dopo essere sopravvisuta a violenze e abusi perpetrati dal marito, trova il coraggio di opporsi alle costrizioni e all’oppressione del suo compagno e della società. Lo fa decidendo di scrivere la sua storia, affinché non sia il punto di vista degli altri a cancellare la sua verità – Su ilLibraio.it l’approfondimento e un estratto

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, una donna su tre ha fatto esperienza di violenza fisica o sessuale, il 30% delle donne ha fatto esperienza di violenze fisiche o sessuali da parte del partner e il 38% delle donne uccise in tutto il mondo ha perso la vita per mano del proprio partner.

Dietro a questi tragici numeri si trovano le storie di abusi e violenze vissute da milioni di donne, storie dalle quali si possono estrarre dinamiche che le accomunano, ma che non sono necessariamente riconducibili a contesti familiari, culturali o sociali identici. Meena Kandasamy ha voluto raccontare una di queste storie.

Kandasamy è una poetessa, scrittrice e traduttrice indiana che ha pubblicato diverse raccolte di poesie e tre romanzi, oltre che articoli e saggi. Ogni volta che ti picchio è il suo secondo romanzo, ora pubblicato in Italia da e/o con la traduzione di Silvia Montis (il primo, The Gipsy Goddess e l’ultimo, Exquisite Cadavers, al momento sono inediti in Italia).

Ogni volta che ti picchio racconta la storia di una scrittrice la cui libertà, subito dopo il matrimonio, viene limitata in modo sempre più invadente. Il marito presto inizia a perpetrare atti di violenza prima psicologica, poi fisica, sessuale e riproduttiva, per giungere infine a minacciarla di morte. La protagonista, come preannunciato dalle prime pagine, trova coraggio e forza per fuggire alle violenze, nonostante il contesto sociale e familiare (e le limitazioni geografiche, professionali e sociali imposte dal marito) la forzino a non ribellarsi.

Kandasamy stessa è sopravvissuta a un marito violento ma, come ha sottolineato in un’intervista al Guardian, il libro non vuole essere né un memoir né la sua autobiografia: “Non c’è neanche una riga di falsità in quel libro” ha affermato, ma “un memoir per me significa la storia della vita di una persona; se avessi dovuto scrivere la storia della mia vita avrei condensato l’intero matrimonio in una nota a piè di pagina”; e ancora: “Non è ciò che mi è accaduto, ma una rappresentazione di ciò che mi è accaduto“, sottolineando il ruolo dell’interpretazione e della rielaborazione artistica.

Ogni volta che ti picchio può anche essere letto come una parabola sulla funzione della narrativa: il lettore si trova subito a confrontarsi con la versione dei fatti della madre della protagonista, la quale non ama rivedersi in un racconto parziale, in continua trasformazione e nel quale diventano rilevanti solo i particolari più assurdi. È così che la protagonista decide di far sentire la sua voce: “Devo fermare tutto questo, prima che la mia storia diventi una nota a piè di pagina in un racconto su un’infestazione di pidocchi. Devo assumermi qualche responsabilità sulla mia vita. Devo scrivere la mia storia”.

Il racconto di Kandasamy, realistico e con punte di crudezza, non si abbandona mai al sensazionalismo o al pietismo. Non vengono solo raccontati gli atti violenti, ma anche il contesto sociale, l’esperienza del matrimonio nella sua interezza e complessità, così come il passato e il presente della protagonista, che rielabora la sua situazione, cerca di uscirne in più modi, e non è mai riducibile al ruolo passivo di moglie maltrattata. Kandasamy conduce lentamente il lettore negli episodi che segnano il passaggio a nuovi livelli di violenza, mostrando come la protagonista non scelga di trovarsi in queste situazioni -accusa rivolta all’autrice dopo la condivisione della sua esperienza-, ma ne venga lentamente relegata, sia dalle costrizioni del marito che dal contesto familiare e sociale che oltre a non offrire vie di uscita, in alcuni casi chiude quelle rimaste.

Può interessarti anche

Kandasamy si prende spazio nella scrittura, intersecando numerosi generi e stili, senza che il racconto perda di realismo o consequenzialità. Troviamo così poesie scritte dalla protagonista, lettere immaginarie che le permettono di ritagliarsi spazi di libertà, tentativi di reinterpretare la storia sotto forma di sceneggiatura per vederla da un punto di vista esterno e quindi allontanarsene. L’inizio di ogni capitolo è impreziosito con le parole – quasi sempre in forma poetica – di un’autrice che a sua volta ha scritto di violenza, ma non mancano anche momenti di ironia e sarcasmo, oltre che riflessioni pungenti sulla società e sul contesto politico.

Ma il pensiero acuto e la coscienza femminista che la protagonista non ha mai paura di nascondere vengono trasformati in strumento di oppressione dagli uomini che le stanno intorno: a volte ne sovvertono dialetticamente il messaggio per limitare la sua libertà, a volte vengono eretti a ostacolo per la buona riuscita della loro relazione. La protagonista che si reimpadronisce del racconto della sua storia è quindi una donna che riprende le redini della propria vita, con la coraggiosa consapevolezza che nonostante ciò che cercano di farle credere, nulla di ciò che ha detto o fatto potrà mai rappresentare una giustificazione di ciò a cui è stata sottoposta.

Ogni volta che ti picchio Meena Kandasamy

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto da Ogni volta che ti picchio:

IX

Sta’ attenta all’amore
(a meno che non sia vero,
e ogni parte di te dice sì, incluse le dita dei piedi).
Ti impacchetterà come una mummia,
e nessuno ti sentirà mai urlare
e ogni tua fuga sarà senza fine.

Anne Sexton, Admonitions to a Special Person (“Ammonizioni a una persona speciale”)

 

Ricordate sempre l’avvertimento.

L’amore ti farà soffrire.

* * *

Balbetto.

Inciampo nelle parole.

Costringo mio marito dentro i silenzi che separano le cose che dico.

Con un uomo che ha provato e riprovato le sue accuse, e le tue risposte, e le sue risposte alle tue risposte, e così via fino all’ennesimo grado immaginabile, con un uomo che non esiterà mai ad alzare le mani su di te se tutto il resto non basta, con un uomo così è inutile gridare o discutere.

Mostrarsi insicura, tuttavia, è un modo per coglierlo di sorpresa; coglierlo di sorpresa significa avere una possibilità di combattere.

* * *

Questa battaglia tra avversari è organizzata come una partita a scacchi. In questo caso ci sono solo due pedine. Io sono il re, costantemente sotto minaccia. Io sono il re, che può spostarsi di una sola casella alla volta. Lui è la regina – una regina melodrammatica e sanguinaria. Non c’è mossa che non gli sia concessa. La scacchiera è vuota, a eccezione di noi due. Ovunque io mi muova, lui mi mette all’angolo. Non c’è riparo o protezione. Alla fine riesce sempre a mettermi sotto scacco.

«La tua violenza è la violenza dello Stato indiano» mi dice. «La tua violenza è strutturale. La mia violenza è la controviolenza degli insorti che combattono per i diritti del popolo, la controviolenza delle donne che si fanno saltare in aria per dare voce alla lotta per l’autodeterminazione del loro paese, la controviolenza di un ragazzino kashmiri che lancia una pietra a un soldato. Il suo atto di violenza è un atto per opporsi alla violenza dello Stato indiano. Edward Said prendeva a sassate gli israeliani. Io non mi vergogno della mia violenza. Ne sono orgoglioso. Non sono un liberale o un democratico. La mia violenza è una reazione alla tua violenza. La tua violenza è la tua volontà di castrarmi, di vivere la vita lussuosa del ceto medio, di continuare a parlare di femminismo».

E così, adesso io sono diventata l’apparato repressivo dello Stato.

Lui è il guerrigliero.

Questa è la canzone che viene riproposta con ostinazione.

È una guerra impari.

* * *

Se gli tengo testa, se rispondo alle urla con le urla, lui mi dà della pazza. Quando rifiuto una definizione così comoda e disinvolta lui dice che è tipico dei matti affermare di essere sani.

Capisco, la pazzia non va più di moda. La parola d’ordine oggi è “depressione”, giusto? Otto centimetri di scollatura, due libri di poesie, un bel po’ di sesso e depressione – non serve altro, per fare di una donna una famosa scrittrice. Da Sylvia Plath a Kamala Das, è questa l’unica traiettoria che abbiate seguito.

Quello che sto subendo mi sembra molto più grande e tremendo del buio nella mia mente. “Depressione” è l’etichetta che mio marito applica al mio stato mentale, al senso della vita per me.

La depressione è un disturbo di cui soffrono solo le donne del ceto medio, per poi esibirlo agli occhi del mondo.

Depressione, un simbolo dell’insensatezza dell’esistenza borghese.

La depressione per te è una scelta di carriera. Senza, non sei nulla.

Depressione: ma quanto puoi essere individualista?

Depressione: il solo accesso delle donne privilegiate al vittimismo.

Depressione – come nel caso di quel politico scaltro che ha ucciso la madre il giorno prima delle elezioni – una zattera di salvataggio con cui cavalcare l’onda dell’empatia.

A volte lui non formula affatto teorie, non offre diagnosi per la mia rabbia ma va più a fondo con le sue congetture.

Sono queste le cose che succedono quando hai un insetto nella testa. Scava e striscia e si contorce e si attorciglia senza mai star fermo, e i pensieri ti vanno da tutte le parti.

Quando non è la depressione, quando non è un insetto che mi si aggira impazzito nel cervello divorando tutte le applicazioni che mi programmano per essere una moglie ubbidiente, mio marito dà la colpa ai dèmoni che si sono impossessati di me.

* * *

La depressione non è l’unico ambito in cui lui mi identifica come prodotto del ceto medio. Nelle rare occasioni in cui il sesso mi strappa un gemito involontario a letto, lui mi dice di chiudere la cazzo di bocca e si ferma, come a punirmi per aver messo il mio piacere davanti al suo. Quello che segue è un discorso intercoitale sull’analisi di classe del comportamento sessuale. Trasformi l’amore in uno spettacolo. Urli perché per te è solo una performance.

Come a confermare i suoi sospetti, picchia il ragazzo che una volta a settimana viene a innaffiare le file di piante di croton dalle foglie coriacee, accusandolo di essere un guardone. La sua paranoia assume forme sempre nuove. Tappa in modo ossessivo con il chewing gum i buchi delle serrature delle stanze comunicanti con la camera da letto. Arrotola lenzuola e le infila nella fessura sotto le porte. Tenta di insonorizzare le stanze meglio che può. Un giorno, scoprendo che è scomparso il chewing gum da una delle serrature, aspetta il ragazzo che si occupa del giardino e lo frusta senza pietà con un pezzo di tubo di gomma. Cerco di farlo ragionare, dicendogli che magari se lo sono mangiato i topi o le formiche. Lui non crede a nessuna spiegazione possibile o accettabile. Crede nella necessità di eliminare qualsiasi prova del fatto che facciamo sesso.

Arriviamo al punto che, se i preliminari iniziano sul materasso, il resto si sposta sul pavimento per impedire che il letto cigoli seguendo il ritmo dei nostri corpi.

Il sesso con quest’uomo è la morte della naturalezza. È l’opposto dell’intimità, perché più lui si preoccupa del rumore, più lui è ossessionato dal giardiniere, meno io mi concentro sul piacere in sé.

* * *

Faccio uno sforzo per cambiare gli effetti di questo condizionamento. Non mi avventuro nel campo complicato dei diritti – sapendo che nell’istante stesso in cui io dirò “È mio diritto” verrò zittita a urla prima ancora che abbia finito la frase. Decido invece di spiegargli che i miei gemiti durante il sesso sono qualcosa di inevitabile, un fatto naturale, qualcosa per cui siamo stati programmati in quanto esseri umani. Gli leggo qualche riga dai Monologhi della vagina: «Mi resi conto che i gemiti migliori erano quelli che ti coglievano di sorpresa; venivano fuori da quella misteriosa parte nascosta di te che parlava la sua lingua particolare. Mi resi conto che i gemiti erano, in realtà, quella lingua»*. Sfodero l’arma della mia formazione linguistica per mandare a segno il colpo. Questa è una funzione del linguaggio, dico. Roman Jakobson ha individuato sei funzioni del linguaggio – non ricordo i nomi di tutte, ma c’è anche questa. È la funzione emotiva. È così che sono state progettate le lingue che parliamo, siamo cablati per questo, è il modo in cui ci esprimiamo a un livello più primitivo.

Mentre mi ascolta ha un’aria smarrita. Capire questa funzione del linguaggio va oltre le capacità di mio marito. Provo a elencargli alcuni esempi al di fuori del genere umano: il canto impazzito del cucù nella stagione degli amori. I toni bassi, suadenti di una balena solitaria. I lamenti straziati dei gatti. Lui non capisce.

Nel suo codice di comportamento – seminato dal patriarcato, innaffiato dal feudalesimo, concimato da un’interpretazione tendenziosa del Comunismo – una donna non dovrebbe gemere. È così che la storia le ruba la voce.

* * *

Persino il più benevolo stregone tamil crede che, per scacciare il dèmone da una donna posseduta, questa debba essere frustata. Non importa se la donna urla, perché la credenza vuole che il dèmone abbandoni il suo corpo attraverso la bocca. A volte la fustigazione continua finché lei non ammutolisce, incapace di gridare. A volte le frustate vanno avanti per tutta la notte, finché la donna non collassa, perdendo conoscenza. A meno che la donna posseduta non venga picchiata, si ritiene che il dèmone dentro di lei non si metta a discutere, non risponda alle domande, eviti di rivelare la propria identità. Nel nostro matrimonio mio marito è lo stregone. Vuole far uscire i dèmoni che crede si siano impossessati di me. In mancanza di fasci di foglie di neem fresche con cui picchiarmi – foglie amare, dentellate, turchese scuro – usa ripieghi improvvisati: il cavo del mio Mac, la sua cinghia di pelle, cavi elettrici attorcigliati. I miei dèmoni non ne sono felici. Non vogliono lasciarmi alla mercé di quest’uomo. Decidono di restare.

* * *

Ogni volta che mi picchia la parte più spaventosa non è né il dolore né la possibilità di rimanere sfregiata né il perverso senso di vergogna. Non è sapere che sono stata sconfitta, o capire che fisicamente non sono abbastanza forte da tenergli testa colpo dopo colpo, che non sono in grado di dargli una lezione, insegnandogli che non deve mettersi contro di me.

Ogni volta che mi picchia il terrore nasce dall’intuizione che tutto questo continuerà, che non finirà facilmente, che oggi a essere tempestate di pugni sono le mie braccia, ma domani lui si avvolgerà i miei capelli attorno alla mano per trascinarmi da una stanza all’altra, e il giorno dopo ancora sarà la mia spina dorsale a sopportare un colpo devastante, e il giorno dopo ancora i pugni rabbiosi si abbatteranno sulla mia testa.

Ogni volta che mi picchia questi pensieri si ammassano uno sull’altro, uno dopo l’altro, rapidi.

Ogni volta che mi picchia il terrore nasce dalla paura che, se oggi mi aggredisce a mani nude, domani potrebbe brandire una cinghia con una fibbia pesante, potrebbe afferrare una spranga di ferro, potrebbe scaraventarmi addosso una sedia, potrebbe spaccarmi la testa contro un muro.

Ogni giorno mi avvicino un po’ di più alla morte, all’agonia, all’essere uccisa, alla paura che mi ritroverò coinvolta in un corpo a corpo il cui esito sarà irreversibile.

So che lo sa anche lui.

L’uso della forza è sempre il segnale di una minaccia incombente, la minaccia di una forza ancora più schiacciante. La paura che lui cerca di instillare in me non è mai la paura del gesto in sé, ma della direzione in cui quel gesto può condurre. Ciò che vedo è ciò che sono costretta a prevedere.

Ogni volta che mi picchia, e lo faccio davvero ogni volta, grido: «Questa è l’ultima volta. Perdonami. Dammi un’ultima possibilità. Non si ripeterà mai più».

Probabilmente quello che voglio dire non è: «[Questo errore] non si ripeterà mai più», perché conosco abbastanza mio marito da sapere che troverà errori senza fine in ciò che faccio. Probabilmente il mio grido disperato è in realtà la promessa che io cerco da lui, dalla sua crudeltà e irascibilità, dalla sua brutalità e dal suo castigo, come se, pronunciando con le mie labbra le parole «Non succederà mai più» mi aspettassi un’eco da parte sua, una volontà di corrispondere a questo sentimento, mi aspettassi che la cessazione di qualsiasi comportamento sbagliato da parte mia venga accolta e ricompensata con una cessazione della violenza da parte sua. Ogni volta che grido: «Non succederà mai più» in realtà sto dichiarando una tregua per il bene di entrambi.

Non è così che si arriva alla pace, ma mi manca l’esperienza necessaria per conoscere questo dettaglio cruciale.

* * *

Racconto ai miei genitori della violenza. Voglio andare via. Non posso più tollerare tutto questo. È passata appena una manciata di mesi, ma mi sento sconfitta. A turno, loro cercano di convincermi a restare.

*  Eve Ensler, I monologhi della vagina, traduzione di Margherita Bignardi e Sarah Barberis, Milano, Il Saggiatore 2018.

(continua in libreria…)

Fotografia header: Getty Editorial

Libri consigliati