Su ilLibraio.it un capitolo da “Una vita non mia”, romanzo d’esordio di Olivia Sudjic, londinese classe ’88, che tocca questioni centrali nell’era dei social network

Nata a Londra nel 1988, Olivia Sudjic ha studiato letteratura inglese alla Cambridge University e ha scritto per testate come l’Observer e l’edizione Weekend del Financial Times. Sympathy, il suo esordio, già pubblicato negli Usa e in Inghilterra, e ora tradotto in Italia da minimum fax (che ha scelto di titolarlo Una vita non mia, traduzione di Chiara Baffa), è stato definito “il primo romanzo di Instagram”.

A ventitré anni Alice Hare, la protagonista della storia, lascia l’Inghilterra per tornare a New York, dov’è nata. Affascinata dall’atmosfera cosmopolita della metropoli, che avverte subito come “casa”, cerca di ricostruire la sua complicata storia familiare, dall’abbandono da parte del padre all’infanzia trascorsa con una madre possessiva e manipolatrice, e si concentra su un breve lasso di tempo in cui lei e i suoi genitori hanno vissuto in Giappone: un periodo che, essendo troppo piccola per ricordarlo, si sente libera di inventare.

Questo tentativo di realizzare un’identità all’incrocio fra realtà e finzione la porta a una profonda fascinazione per Mizuko Himura, una scrittrice giapponese la cui vita – vista dall’iPhone – ha strani parallelismi con la sua. Dopo un lungo inseguimento sui social network le due donne si incontrano in quella che a Mizuko sembra una circostanza casuale, ma nell’era della connettività nulla è una coincidenza. Il loro rapporto infatti si evolverà in un gioco di specchi multimediali dove i confini fra social, fatti e finzione sfumano in un groviglio di bugie e tensioni…

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo

Nell’atrio del palazzo di sua figlia, mentre restituiva la chiave di riserva, la madre mostrò la foto al portinaio, oltre a una radiografia che rivelava lo strano percorso a volute del parassita. Lo ringraziò per tutto quello che aveva fatto. Aveva salvato la vita di sua figlia, non c’erano dubbi. Presto l’avrebbero dimessa. Per tornare a casa doveva percorrere solo due isolati, o in alternativa poteva prendere un taxi. Nelle settimane successive era probabile che le servisse aiuto, più del solito.

Avrete visto la foto Kakusei. Andò a finire sui giornali. Non le rende giustizia. Il suo viso determinato è arrossato, la mandibola sporge in fuori, anche se immagino che la sua bellezza sia un dato talmente assoluto da travalicare la vanità. Quell’immagine adesso è la prima che compare se si cerca il suo nome. Mizuko Himura. Ho piazzato un milione di trappole per quel nome. Ogni volta che fa o dice qualcosa, o che qualcun altro fa o dice cose che la riguardano, su entrambe le sponde di qualsiasi oceano, il nome mi raggiunge con un Google Alert. Ogni volta che tiro su la rete, provo una sorta di estasi per circa un secondo, poi vengo sopraffatta da una nausea acuta. Leggo senza respirare, scorrendo per vedere se qualcuna di quelle parole è su di me, o segretamente indirizzata a me, e sento una strisciante mortificazione quando niente salta agli occhi e lei sguscia via nell’acqua. Benché stia ancora sperando in un messaggio, anche ora che è passato più di un anno, devo presumere che l’omissione rappresenti il messaggio, e che il suo lungo silenzio contenga tutte le risposte che mi servono.

Guardando le foto che la ritraggono da quel periodo in poi, si vede che qualcosa è cambiato. Il suo fascino è diventato strano – più intenso, se possibile – anche se potrebbe essere l’effetto della lontananza, o del trucco professionale, o del fatto che leggo sul suo viso ciò che è successo e di cui sono a conoscenza, o una combinazione di tutte queste cose. I suoi lineamenti sembrano essere stati in qualche modo smantellati, sono meno simmetrici, come se avessi davanti i resti di qualcosa di perfetto che però non riesco a ricordare nella sua interezza.

Ancora non so cosa provasse veramente per me. Ho passato in rassegna tutto quello che ho conservato; oggetti inconcludenti, cianfrusaglie che potrebbero significare tutto o niente. Sono certa che c’è qualcosa di profondissimo, nascosto ben sotto la superficie, che, se disturbato, magari perfino provocato, potrebbe finalmente uscire allo scoperto. Un tempo ero capace di evocare le cose in quel modo, tirandole a me con fili invisibili, oscurando il cielo, un febbrile schermo blu su cui tremolava tutto ciò che volevo tenere vicino. Poco prima che partissi per l’America, fu mia madre a passarmi i suoi poteri. Un’eredità singolare. Aveva fatto capolino in camera mia, dove ero rintanata da settimane a fare i bagagli senza sosta. Mi ero pian piano abituata a scavalcare o aggirare la valigia spalancata in mezzo al pavimento, e avevo dimenticato che a un certo punto avrei dovuto a) chiuderla e b) trasportarla senza che nessuno mi desse una mano. Dopo un periodo di silenziosa osservazione, mentre piegavo ostinatamente le cose senza alzare lo sguardo, mi consigliò di cercare di «vivere leggera» a New York. Ai tempi non sapevo cosa mi aspettasse, avevo dato per scontato che quella saggezza fosse diretta alla valigia spalancata a terra da cui tracimavano sulla moquette i miei libri troppo difficili (Baudrillard, Deleuze) e i miei vestiti abbinati con troppa cura. Poi mi stritolò in un abbraccio, il primo che ricordi da adulta, e sentii che mi trasmetteva il suo potere. Mi scivolò lungo il corpo come mercurio e mi fece formicolare le dita delle mani e dei piedi, dandomi una nuova percezione del loro peso. Lei, naturalmente, non aveva mai vissuto leggera. Soffriva di un’incurabile apofenia. «A Manhattan», mi disse, «dovrai essere leggera, così leggera da fluttuare sopra la città come una spora solitaria, oppure» – e questo fu l’inaspettato rovescio del suo avvertimento, la parte che mi si piantò in testa – «dovrai essere pesante, pesantissima, e attirare tutte le cose verso di te».

(Continua in libreria…)

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