Paolo Di Stefano, con lo pseudonimo di Nino Motta, pubblica il suo secondo “giallo”, “Ragazze troppo curiose”. L’autore si diverte sfoderando unghie filologiche, che non sono certo poco affilate…

Che cos’è un’indagine se non “filologia applicata all’esistenza”? Rosa Lentini ne è ben convinta, anche se ad eccezione di sua madre, Donna Evelina, che dimostra sempre più “un sorprendente interesse per la filologia” e in particolare per il petrarchesco Codice degli abbozzi, e del balbuzientissimo comandante Drago, ex carabiniere ma per tutti e sempre comandante in capo, gli altri, quando lo dice, rimangono un po’ di stucco.

Eppure si può fare, ci suggerisce Paolo Di Stefano che, con lo pseudonimo di Nino Motta, pubblica il suo secondo “giallo” (Ragazze troppo curiose, Bompiani. Giallo si fa per dire, l’uso del genere è qui molto libero e forse un pochino strumentale) di quella che sembra destinata a essere una serie con tutti i crismi.

Il suo personaggio è del resto non poco interessante. Come già sanno i lettori di La parrucchiera di Pizzuta, si sta avviando verso i cinquant’anni conservando un’invidiabile forma fisica, e una altrettanto invidiabilissima libido, sia per quanto riguarda la vita in generale sia per ciò che attiene il sesso. Ha una figlia, è separata da un marito che per lei fa parte di una speciale categoria di maschi, gli “avulsi” (si direbbe quelli filologicamente fuori contesto), è ironica, allegra, un poco stanca di Università e naturalmente studiosa espertissima (soprattutto per quanto riguarda il due e trecento). Se l’amica del cuore, quando Rosa le annuncia che parte da Milano, dove vive, per dedicarsi a un nuovo mistero nella cittadina immaginaria di Pizzuta (fra Catania e Ragusa, si direbbe) e proferisce dunque quello che è il suo grido di battaglia circa filosofia ed esistenza, replica con un poco convinto, “Chissà che brividi,” ebbene, lei è davvero in grado, quei brividi di provarli tutti.

Ora, trattandosi di un giallo, non racconteremo la trama, ma cercheremo di definirne il contesto. Si tratta di un tipico cold case.

A molti anni dall’uccisione di una giornalista che indagava su un oscuro delitto – avvenne a Ortigia, nel 1974 – qualcuno infatti ha scritto tre lettere a Drago, asserendo che ci sono testimonianze importanti da acquisire. Che si tratti di “qualcuno” e non di tre distinti mittenti è già la prima conclusione cui giunge Rosa, confrontando da esperta di manoscritti antichi le calligrafie. Di qui in poi non mancano i colpi di scena, che permettono di inserire questo delitto in una costellazione di omicidi, risvegliare le memorie di testimoni allora reticenti e adesso, anziani, un po’ meno omertosi, e arrivare infine alla soluzione; che può essere descritta anche con uno “stemma”, cioè lo schema che in filologia consente di mettere in ordine anche cronologico vari manoscritti collegati fra di loro.

In tutto ciò, Paolo Di Stefano, che pure nei romanzi scritti a proprio nome affronta temi sociali o storici in tutta la loro durezza – ha appena riproposto sempre per Bompiani Azzurro troppo azzurro -, qui si diverte sfoderando unghie filologiche, che non sono certo poco affilate (del resto è soprattutto a questa materia che si è formato, a Pavia, se non andiamo errati alla scuola di Maria Corti).

Sull’uso dello pseudonimo per segnalare al lettore differenti progetti e livelli letterari ha molto riflettuto, fra gli altri, Joyce Carol Oates, soffermandosi sulla necessità o sul mero desiderio di creare una gerarchia di identità pubbliche all’interno della propria ispirazione artistica.

Si direbbe che è esattamente il caso di Di Stefano-Nino Motta: riparato dal pur trasparente velo dello pseudonimo, che gli consente forse una certa maggiore licenza e libertà immaginativa, l’autore appunto immaginario si lascia andare a un gioco linguistico e persino comico decisamente godibile.

Il divertimento è contagioso, siamo nell’ambito di una fantasmagoria e Rosa Lentini non sembra tanto il suo ideale di donna, quanto ciò che vorrebbe probabilmente essere qualora fosse una donna. La sua trasformazione femminile: se non in quanto Paolo Di Stefano, certamente in quanto Nino Motta. È un personaggio a specchio, in fondo non poco “maschile”, e qui sta il gioco, anche linguistico: con punte vagamente surreali come quando, dovendo definire lo sguardo voglioso di un gommista, lo si risolve in uno “sguardo pneumatico”, o quando spifferamento e sputtanamento si inseguono rimati in brevi clausole; e si possono citare, spulciando a caso, il “microscopio dell’intelligenza teresiana”, che si riferisce peraltro a una Teresa finita assai male per essersi troppo avvicinata alla verità, o le elucubrazioni mentali sulla rara, rarissima parola “caluggine”; per non parlare delle atletiche performance nel bilocale dell’ex allievo Claudio Rubino, studioso del Bembo ma dotato di notevoli virtù, queste sì, extratestuali.

Nino Motta si concede il piacere di narrare in modo allegro e ironico un episodio che pure fu cupo e violento. La vicenda su cui indagare è infatti tragica, triste e incombente; ma il ritmo dell’indagine è quantomeno festoso, anche perché Rosa e Donna Evelina, nella tradizione del detective e della sua immancabile spalla, se la godono un mondo: fino a far svanire nel nulla, perché il romanzo è finito e dunque non c’è più tempo, anche nuove, possibili, ulteriori minacce. Ed essere congedati, noi lettori, con un franco sorriso. Affettuosamente beffardo.

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