Giulio Cavalli, scrittore, attore a autore teatrale da anni sotto scorta, in libreria con il suo nuovo romanzo, “Santa mamma”: su ilLibraio.it un capitolo

Giulio Cavalli, scrittore, attore a autore teatrale classe ’77, dal 2007 vive sotto scorta a causa del suo impegno contro le mafie. Collabora con varie testate giornalistiche e ha pubblicato diversi libri d’inchiesta. Ha fatto politica ed è stato membro dell’Osservatorio sulla legalità e consigliere regionale in Lombardia.

giulio cavalli

Arriva in libreria per Fandango il romanzo Santamamma: il protagonista, Carlo Gatti, nasce da madre certa e padre incerto, a Milano. Lei è una poco di buono, inaffidabile, senza speranze, lui uno sconosciuto di cui nulla si ha né si avrà mai. Orfano per metà, Carlo cresce coltivando un poetico lato drammatico e autocommiserante che lo mette al riparo dalla necessità di conoscere le proprie origini, che si nascondono tutte pasticciate su un foglio lercio passato di faldone in faldone dai tribunali dei minori fino ai cassetti dolorosi della donna che l’ha adottato. Non vuole sapere e grottescamente non sa. Ma all’età di quarant’anni, dopo essersi messo il cuore in pace, incontra per caso suo fratello, come nei film. Qui però non c’è nulla di fiabesco, solo un gran dolore, perché quel sangue del tuo sangue a cui ci si aggrappa a volte è soprattutto una voglia matta, alla fine, di tornare a casa.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un capitolo

Avevo deciso di incontrare mio fratello perché lui è la mia famiglia. Se Maria Roberta è la fattrice biologica Giuseppe invece è fratello del mio stesso dolore. Noi due non c’entriamo niente. Noi due siamo le vittime. Fratelli di padre e di madre, dicono le carte. Maria Roberta Cavalli e quell’uomo nato a Bari, professione macellaio in Milano alla fine degli anni Settanta, che s’è fatto scappare un po’ di sperma. La lontananza che s’era fatta solida per i genitori naturali mi aveva stretto ancora di più con il mio fratello, dispari come me, finito tra le montagne. Noi fratelli naturali da adottivi diventiamo sale sparso sull’Italia ed è un miracolo incrociarsi prima di essere mangiati.

La clinica era una struttura quadrata ereditata dal fascismo. “Una vecchia colonia estiva”, mi illustrava il signor Longhi mentre i sassi ci sfregavano sotto le scarpe. Le stanze erano identiche e in fila: un corridoio ripetibile all’infinito infarcito di fragili spaventosi e spaventati. Un catalogo di tipi umani sott’olio. Un uomo anziano ci avvicinò urlandoci di avergli sporcato tutti i muri passando da lì. “È Franco – disse sottovoce il signor Longhi per rassicurarmi – faceva il vigile prima di diventare paranoico. Ora non mangia per non sporcarsi la gola e devono nutrirlo via flebo. Non preoccuparti.” La stanza di Giuseppe era la 42. Dietro al letto c’era una bandiera del Milan che faceva pieghe negli angoli. Una bottiglia d’acqua aperta sul comodino in tubi curvati come quelli dei banchi di scuola.

Sul letto c’era la Gazzetta dello Sport macchiata di caffè e un libro di cui non si leggeva la copertina, appoggiato aperto per tenerne il segno con le pagine impigliate da un lato che si arrotolavano su se stesse. La luce, flebile, era un neon da pizzeria, acceso nonostante fosse giorno. Anche la televisione passava le immagini di un vecchio film con John Travolta, senza audio. Su una mensola che faceva da tavolo stava ancora il vassoio della colazione, con un caffellatte piatto poco bevuto e mezzo pane stracciato a mano. Giuseppe uscì dal bagno. Ha i miei occhi. Solo che i suoi si sono fatti liquidi, ingrassati, troppo sporgenti. Indossa un paio di pantaloni neri da calciatore e una maglietta slabbrata che cade tutta su una spalla. Ai piedi ciabatte di gomma e calzini di spugna. È gonfio. Non grasso, gonfio come se gli iniettassero aria mentre dorme. Ma è mio fratello. Sono io nelle mani tozze, nel collo corto, per la cifosi, sulle labbra troppo carnose, negli zigomi, nei gomiti sempre screpolati. Come abbiamo resistito, io e lui, ostinati a essere fratelli nonostante i timbri e gli impacchettamenti per diverse destinazioni. Si vede che la natura ci tiene alla fratellanza come inguaribile vizio. L’avrei riconosciuto anche sbriciolato da una mina.

“Giuseppe, questo è Carlo. È tuo fratello. È stato adottato a Milano ma era in orfanotrofio con te. L’abbiamo cercato e abbiamo voluto fartelo conoscere.” E mentre il signor Longhi parlava le sue parole finivano nelle fughe delle piastrelle senza interessare a nessuno. Giuseppe si sedette sul letto, cambiò canale. “Non lo vuoi salutare tuo fratello?” Pensai che se Giuseppe fosse stato normale una notizia data così gli avrebbe fatto esplodere il cervello; lui invece sembrava concentrato sull’unghia che si sbiancava schiacciando il tasto del telecomando. “Io esco, Carlo”, mi disse il signor Longhi. Intanto Giuseppe si era riperso a rimettere dritte le pagine sgualcite del libro. Io ero lì, sceso dal suo naso a guardarlo. Mi avvicinai.

(continua in libreria…)

 

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