Nel suo nuovo romanzo, dal titolo “Se esiste un perdono”, che racconta la vicenda dimenticata di sir Nicholas Winton (tornata alla luce grazie a un video della BBC), Fabiano Massimi ci accompagna in un viaggio fra storia e finzione, rischiarando una delle pagine più oscure del nostro passato con la luce della speranza – Su ilLibraio.it un estratto

La chiamano la Bambina del Sale, perché tutte le sere, quando il buio allaga la città, puoi incontrarla all’imbocco di un vicolo mentre vende ai passanti sacchetti in tela azzurra con dentro una manciata di sale, introvabile da tempo. Nessuno a Praga conosce il suo nome. Nessuno sa come si procura quella preziosa merce.

La Bambina compare dopo il tramonto e scompare prima dell’alba, senza dare confidenza a chi incontra. Una moneta, un sacchetto, tutto qui. A raccontare la sua storia è lo scrittore Fabiano Massimi, nel suo nuovo romanzo, Se esiste un perdono (Longanesi), in cui riscopriamo la vicenda vera e dimenticata di sir Nicholas Winton.

Collaboratore de ilLibraio.it, nel 2020 l’autore, traduttore e bibliotecario ha pubblicato L’angelo di Monaco (Longanesi), l’esordio italiano più venduto alla Fiera di Londra 2019, che gli è valso il Premio Asti D’Appello. È poi tornato in libreria con I demoni di Berlino, romanzo nel quale il commissario Sigfried Sauer è alle prese con il misterioso incendio doloso del Reichstag di Berlino, mai raccontato prima in un thriller.

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E veniamo alla trama del nuovo romanzo. È il 1938. Il furore nazista incombe sulla Cecoslovacchia e Hitler è alle soglie della città. La paura dilaga, soprattutto fra gli ebrei del Ghetto. Non c’è tempo, bisogna fuggire. Bisogna salvare i più deboli, come i bambini senza famiglia, come la Bambina del Sale. Un’impresa impossibile.

Eppure c’è un uomo che ci crede, un inglese di origini ebraiche, Nicholas Winton, che tenta il miracolo: allestire treni diretti nel Regno Unito per mettere in salvo quanti più bambini possibile.

Mezzobusto di Fabiano Massimi in una foto di Yuma Martellanz

Fabiano Massimi (foto di Yuma Martellanz)

Tra mille ostacoli logistici e politici, e con l’aiuto della giovane Petra che lo guida in una città a lui sconosciuta e colma di fascino, Winton sta per riuscire nel suo eroico intento. Ma la Bambina del Sale sembra non voglia farsi salvare. Perché quello sguardo sfuggente? Quale segreto nasconde?

Recuperando un avvenimento tornato alla luce grazie a un video della BBC, dove l’uomo ottantenne incontra a sorpresa i “suoi” bambini ormai adulti, Massimi, già vincitore del Prix Polar 2022, ci accompagna in un viaggio fra storia e finzione, rischiarando una delle pagine più oscure del nostro passato con la luce della speranza.

Copertina del libro Se esiste un perdono di Fabiano Massimi

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

Della Bambina del Sale ebbi le prime notizie il giorno dopo, quando per conto di Doreen andai a visitare uno dei campi profughi a nord della città. Werner passò a prendermi alla pensione alle prime luci dell’alba, e dopo avermi caricato sulla sua Tatra blu piena di bozzi e rigature fece altre due fermate, una nel Ghetto, alla Sinagoga Spagnola, e una a Kampa, in quella che avrei scoperto essere la sede praghese dei Cavalieri di Malta. In entrambi i casi mi lasciò in macchina da sola per qualche minuto prima di ritornare trascinando dei pesanti sacchi di iuta che ammucchiò sui sedili posteriori.

«Carbone» disse notando la mia curiosità mentre si rimetteva alla guida. «Nel campo fa freddo.»

E faceva freddo davvero, molto più che in città, perché non era un campo vero e proprio, con steccati, casupole, baracche e latrine, ma un accampamento di fortuna cresciuto senza regola in mezzo a un bosco, dove i più fortunati potevano contare su una tenda di recupero e gli altri soltanto su teli e coperte appesi ai rami degli alberi. Ovunque, tra i camminamenti fatti di assi di legno e le paratie di lamiera sui lati più esposti al vento, si respirava il fumo che proveniva dalle decine e decine di bidoni arrugginiti sparsi qua e lù, falò improvvisati che attiravano capannelli di bambini e anziani dall’aria intontita. Gli uomini, cupi e orgogliosi, se ne stavano seduti più lontano, con i piedi su sassi o cassette di legno per non toccare il terreno gelato, mentre le donne lavoravano a gruppetti serrati, chi cucendo, chi cucinando, chi badando ai bambini più piccoli e ai loro pianti. Su tutto gravava una cappa di precarietà consolidata, come se fossero finiti in un limbo che si annunciava eterno, e che non aveva alcun senso combattere. Andava solamente sopportato.

Quando videro Werner, i bambini e gli uomini si fecero avanti, disponendosi in una fila ordinata. Nei loro occhi brillava un’ansia dignitosa, non ancora piegata dalla fame che sarebbe arrivata nei mesi a venire. Uno dopo l’altro sfilarono di fronte ai sacchi di carbone, ricevendo un pezzo a testa, i bambini due. «A volte ho anche qualche caramella» mi confidò Werner, sottovoce, «ma i fondi iniziano a scarseggiare, dobbiamo usarli per cose più necessarie.» Disse quest’ultima parola con tono sprezzante, quasi polemico. Come se nulla, ai suoi occhi, fosse più necessario che dare caramelle ai bambini.

I sacchi si svuotarono presto, e alla fine della fila ci fu chi restò senza carbone. Non sentimmo lamentele, però. Nessuno aveva barato, mettendosi in fila due volte o intascando più di quanto dovuto. Semplicemente, il destino aveva voluto che non ce ne fosse abbastanza per tutti. I falò, del resto, erano comuni, e i profughi un’unica grande famiglia. Si sarebbero aiutati tra loro, come da sempre fanno gli ultimi del mondo.

Poi c’era il baratto, la forma più antica di commercio, e assistetti a un esempio sorprendente proprio mentre ripiegavo con Werner i sacchi di iuta svuotati: un bambino sui dieci anni, i piedi scalzi sulle assi ruvide di un camminamento, si avvicinò a una donna che ricuciva una coperta sdrucita e le tirò la veste con decisione, due volte. Quando lei si voltò a guardare, lui estrasse dalle tasche le due pepite di carbone appena ricevute da noi e gliele offrì sui palmi delle mani, senza dire nulla. La guardava negli occhi in attesa. La donna doveva aver già avuto a che fare con lui, perché senza dire nulla a sua volta annuì, mise giù la coperta e si alzò in piedi. Da una tasca della veste prelevò un sacchetto di tela azzurra e glielo mostrò. Il bambino annuì con decisione. La donna tese un palmo e lui le consegnò le due pepite. Poi, rapido come se temesse di perdere l’occasione, le strappò di mano il sacchetto e fece un passo indietro. La donna sorrise, scosse la testa, quindi tornò a sedersi e a cucire la vecchia coperta. Il bambino corse via stringendo il sacchetto come se dentro ci fosse la sua anima.

«Hai visto?» chiesi a Werner, incuriosita.

«Cosa?»

«Quel bambino. Ha scambiato il carbone per un sacchetto di tela.»

Werner parve colpito dalla notizia. Alzò gli occhi su di me. «Un sacchetto di tela?»

«Sì. Gliel’ha dato quella donna.» La indicai.

«Azzurro? Il sacchetto, dico.»

«Sì, perché?»

Werner sorrise. «La Bambina del Sale.» Poi aggiunse: «Seguimi», e marciò verso la donna che cuciva. «Mi scusi» le disse quando l’ebbe raggiunta.

La donna voltò la testa sorpresa. «Sì?»

«Abbiamo visto lo scambio» disse.

«Quale scambio?»

«Con quel bambino» risposi io. «Il carbone per un sacchetto.»

Lei si strinse nelle spalle. «E con ciò? Il carbone era suo, e ora è mio. Non lo vorrete indietro?»

«Non lo vogliamo indietro» la rassicurò Werner. «Ma quel sacchetto… C’era il sale, dentro? Era un sacchetto azzurro?»

La donna lo guardò per qualche istante senza dire nulla, senza muovere un muscolo.

«La stiamo cercando» continuò Werner. «La Bambina del Sale. Lei sa di cosa parlo?»

Altro silenzio, poi, lentamente, la donna annuì. «Ma non l’ho mai incontrata» aggiunse. «Il sacchetto mi è arrivato da un amico. E lui non mi ha detto dove l’ha preso.»

«Ne ha un altro? Vorrei vederlo.»

«Avevo solo quello. Josef mi dava il tormento da giorni. Vale più di due pezzi di carbone, in realtà. Ma i bambini…» disse, e non terminò la frase. Si limitò a stringersi nelle spalle.

«Grazie lo stesso» disse Werner, chiaramente deluso, e lasciammo la donna al suo lavoro.

Il campo era grande, stimai almeno duemila persone, la maggior parte delle quali sembrava provenire dalle mie parti. Profughi dei Sudeti, sfuggiti all’invasione nazista. Non riconobbi nessuno, ma distinsi un centinaio di ebrei in abito tradizionale e almeno tre famiglie rom. In circostanze normali non avrebbero convissuto tutti insieme, ma quelle non erano circostanze normali – non lo erano da tempo, e non sarebbero tornate a esserlo per chissà quanto. Passeggiavamo tra i falò e le tende prestando orecchio ai dialoghi in ceco, slovacco e persino tedesco – dissidenti, immaginai, cittadini del Reich che si erano schierati dalla parte sbagliata e ora rischiavano la vita –, e intanto io ripensavo al sacchetto azzurro e a ciò che Werner aveva chiesto alla donna. Alla fine la curiosità mi vinse.

«Chi è la Bambina del Sale?» domandai.

Werner si riscosse dai suoi pensieri, mi guardò sorpreso. «Non ne hai mai sentito parlare?»

Scossi la testa.

«Da quanto sei a Praga?»

«Due mesi» risposi. «Ma a parte la pensione e la birreria, non ho visto nulla, non ho parlato con nessuno.»

Werner annuì. «Chi è la Bambina del Sale» ripeté. «Saperlo! Molti pensano sia una leggenda. Conosco un paio di uomini che dicono di averla incontrata davvero, ma se ascolti loro la collina di Petřín è piena di folletti e nelle segrete del Castello vive un drago… Però i sacchetti girano, ne ho visti diversi, e uno anche tu, no? Per cui qualcuno deve distribuirli. Prepararli e distribuirli.»

«Ma cosa contengono?» domandai, abbastanza scioccamente.

«Sale. Sale in grani, di ottima qualità, nessuno sa preso da dove. La Bambina lo vende agli angoli delle strade nella Città Vecchia, ma cambia sempre posto, uscendo solo di notte. E chiede molto poco. Una moneta a sacchetto.»

Trasecolai. Una moneta a sacchetto, quando il sale era diventato così raro! Dopo la Conferenza di Monaco, molte miniere erano state requisite dal Reich, e il prodotto dirottato sulla Germania.

«Se la Bambina esiste» continuò Werner, «sarebbe importante capire chi è. Arrivare a lei, e da lei al sale. Con il sale si possono fare ottimi scambi. Per questo la cerchiamo.»

Annuii, ma non fu al vantaggio economico che pensai: fu alla bambina che si celava dietro la Bambina. Chi era, se esisteva davvero? Dove viveva? Ed era sola? O era come i senza famiglia che Doreen mi aveva chiesto di cercare, i nomi che avrei raccolto nella mia lista?

Questo mi stavo domandando quando udimmo un gran clamore provenire dal fitto del bosco alle spalle del campo. Urla di uomini, grida di donne: «Fermati!» «Prendetelo!» «Scappa, Milan!» «Di qua!» «Infami!»

Vidi Werner irrigidirsi all’istante, gli occhi larghi come una preda di fronte al predatore.

«Che succede?» chiesi, ma lui mi prese per un braccio e mi trascinò con sé dietro un telo appeso a un ramo.

«Sst!» fece, portandosi un dito davanti al naso.

Udimmo altre grida, l’eco di un’esplosione che mise in fuga uno stormo di uccelli, poi passi di corsa, pesanti, numerosi. «Torna qui!» «Sei in trappola!» «Prendetelo!» Quindi attraverso una slabbratura del telo vedemmo un uomo basso e tozzo con un cappotto troppo grande sbucare dal folto degli alberi, avanzare affannato tra la neve ghiacciata e i rami bassi di un albero caduto.

«Chi è?» sussurrai.

Werner scosse la testa.

Alle spalle dell’uomo comparve una mezza dozzina di inseguitori, uomini con una divisa che riconobbi subito, e che mi lasciò interdetta. «La polizia?»

«Non puoi scappare!» gridò uno degli agenti, prima in ceco e poi in un tedesco stentato. «Non rendercela più difficile!»

Un’altra esplosione, più forte, più vicina. Notai la pistola in mano a uno degli agenti, puntata al cielo per spaventare, non ferire.

«Lo vogliono vivo» commentò Werner, stringendosi più forte a me per farci meno visibili dietro il telo.

L’uomo con il cappotto ansimava come un mantice, il volto porpora, i capelli scuri inzuppati di sudore. Ormai la sua corsa era un barcollare ubriaco nella fanghiglia del bosco, e la polizia si avvicinava.

«Lasciatelo stare!» gridò una donna alla nostra destra.

«Scappa, Milan, scappa!» lo incitò un uomo anziano, i capelli al vento come ragnatele.

Ma Milan non aveva più energie, e presto un agente, il primo che avevamo sentito gridare, gli fu abbastanza vicino da spiccare un balzo e afferrarlo per le gambe. I due caddero a terra insieme e rotolarono per l’inerzia, inzaccherandosi e impolverandosi e finendo per schiantarsi contro un cespuglio. Il poliziotto si mise a cavalcioni del fuggiasco e iniziò a tempestarlo di colpi con i pugni uniti, producendo un suono sordo e liquido che mi fece rivoltare.

«Questo è perché sei fuggito! Questo perché non ti sei fermato! E questo perché dovrò lavare tutta questa merda dalla divisa! Bastardo.»

Finalmente, dopo un tempo lunghissimo in cui tutto il campo rimase in silenzio, come sospeso, gli altri agenti arrivarono, bloccarono il collega – «Adesso basta, basta così» – e li separarono.

«Milan Kosma» dichiarò il poliziotto con la pistola, le parole distanziate per l’affanno della corsa. «Sei in arresto in nome del governo. Ogni resistenza varrà come aggravante alla tua posizione.»

«Lasciatelo stare! Cosa vi ha fatto?» chiese il vecchio con le ragnatele in testa.

«Signori, allontanatevi per favore» rispose un altro agente, il manganello già in mano. «Non è nulla che vi riguardi.»

«È solo un povero diavolo come noi! Non vi basta averlo cacciato dalla sua terra? Ora volete anche consegnarlo al nemico?»

«Signori, per favore» ripeté l’agente, con tono minaccioso.

Poi gli altri tirarono in piedi Milan Kosma – il volto maciullato come una bestia sulla strada, il cappotto lercio di fango – e lo portarono a spinte e strattoni fino a un furgone parcheggiato all’ingresso del campo.

«Werner, cosa succede?» sussurrai di nuovo, il sangue che mi ribolliva in corpo mentre ripensavo al mio Pavel.

Allora, finalmente, mi rispose. «Politica. Hitler fa un nome e il governo consegna l’uomo. Il povero Milan è carne morta, ormai. È questo che ci aspetta quando il Reich prenderà Praga.»

Strinse i denti, le mani che gli tremavano, poi sospirò.

«Andiamo» mi disse. «Abbiamo un lavoro da fare, e sempre meno tempo.»

(continua in libreria…)

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