La trama del nuovo romanzo di Enrico Macioci, in cui i generi si ibridano, ci porta nella tarda primavera dell’81, quella in cui si insinua una crepa nell’infanzia del protagonista, ma anche nella nostra coscienza collettiva – Su ilLibraio.it un estratto

Enrico Macioci, nato a L’Aquila nel 1975, è autore di numerosi libri. Ha esordito con Terremoto (Terre di mezzo, 2010), a cui sono seguiti La dissoluzione familiare (Indiana, 2012), Breve storia del talento (Mondadori, 2015), Lettera d’amore allo yeti (Mondadori, 2017), Tommaso e l’algebra del destino (SEM, 2020). Lo scrittore, che si è laureato prima in Giurisprudenza e poi in Lettere moderne, torna in libreria per Terrarossa edizioni con Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, in cui racconta il momento in cui tre bambini incontrano la paura e il mondo degli adulti inizia a farsene sedurre.

Christian scompare negli stessi giorni in cui Alfredo Rampi cade nel pozzo di Vermicino e Francesco, seienne come loro, è costretto a tradire una promessa nella speranza di ritrovare il suo amico, mentre gli occhi di tutti sono rapiti dai bagliori della televisione, dal primo dramma in diretta e senza redenzione. La trama di questo romanzo breve, in cui i generi si ibridano, ci porta nella tarda primavera dell’81, quella in cui si insinua una crepa nell’infanzia del protagonista, ma anche nella nostra coscienza collettiva, ed è una crepa i cui margini hanno finito per sfrangiarsi fino a farci precipitare al suo interno, nella stanza buia della quale forse non siamo più in grado di abbattere la porta.

Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia di Enrico Macioci

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it un estratto:

La morte è uno spettacolo e lo spettacolo è la morte

Intorno al pozzo si assieparono ben presto diecimila persone. tg1, tg2 e tg3 trasmisero l’evento in diretta. Sembrava di assistere alla fine del mondo – invece stavamo assistendo all’inizio di un altro mondo: il nostro.

Alfredo Rampi era nato l’11 aprile del 1975, due mesi dopo Christian e un mese dopo di me. Dunque si poteva davvero rischiare di morire, anche se si era bambini. Né Alfredo né Christian però erano morti – almeno non Alfredo. Christian, non lo sapevo.

Visto che il sottosuolo era più duro e compatto del previsto, ci sarebbero volute ancora dieci o dodici ore per raggiungere Alfredo tramite il tunnel parallelo. Calarono una flebo di acqua e zucchero e pomparono ossigeno nel pozzo. Alfredo soffriva di cardiopatia e doveva operarsi a set­tembre.

La folla affluita a Vermicino rumoreggiava. L’assembramento ostacolava i soccorsi. Le trivelle lottavano con le radici, i sassi, la morte: la morte esisteva e allungava i suoi tentacoli nelle tenebre. Il Paese si rannicchiò sul bordo di un pozzo, si rannicchiò intorno a un bimbo di nome Alfredo Rampi ignorando che un altro bimbo di nome Christian Crèoli fosse sparito alla medesima ora e non si sapeva perché o percome.

Gli speleologi del Soccorso Alpino non riuscivano a raggiungere Alfredo. Probabilmente a causa delle vibrazioni dovute agli scavi, Alfredo era scivolato più giù. Adesso si trovava a una profondità di sessanta metri. Era una cosetta fragile nelle grinfie della terra e la settima potenza industriale del mondo faticava a tirarlo fuori. Lui rispondeva alle sollecitazioni ma a un certo punto implorò: «Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia».

È una frase che non ho mai dimenticato.

È una frase che avevo già udito.

È la frase che rimbomba dentro il cuore di ciascun uomo dal primo all’ultimo istante che trascorre sulla Terra.

Esiste, immagino, un inconscio collettivo, una specie di enorme caverna in cui vaga l’umanità presente passata e futura, ma la caverna è buia e noi non vediamo nessuno tranne noi stessi. Però forse ci udiamo bisbigliare l’un l’altro senza tregua: sfondate la porta ed entrate nella stanza buia. Così bisbigliamo ininterrottamente: sfondate la porta ed entrate nella stanza buia. Sfondatela, vi prego. Sfondiamola.

Tutti lo chiamavano Alfredino. Non riuscivano nemmeno a rimuovere la tavoletta di soccorso rimasta nel budello, ma lo chiamavano Alfredino. A me suonava fasullo. Se mi fossi trovato laggiù al posto suo e mi avessero chiamato Franceschino mi sarei sentito preso in giro. Chiamarlo Alfredino rendeva il suo dramma più intimo – una tentazione irresistibile.

Tutti lo conoscevamo benché nessuno lo avesse mai visto. Era uno di noi e ce l’avrebbe fatta perché a nessuno di noi succedeva roba del genere, cascare dentro un pozzo in mezzo ai campi per poi morirci dentro mentre centinaia di persone sono lì a soccorrerti. Alfredino offriva alla nostra società la chance di condividere la solitudine, di mascherare l’impotenza, di rinnegare il reciproco disinteresse. Alfredino non sarebbe morto, era vivo e aveva paura, ma nel frattempo noi sperimentavamo la morte attraverso di lui, attraverso la sua paura di morire. La morte assumeva una forma, la forma del racconto di ciò che succedeva all’interno del pozzo e che i telespettatori non potevano vedere. La morte veniva esorcizzata frugando nelle sue luride tasche, tra la sfortuna e gl’imprevisti. La morte era uno spettacolo e dunque lo spettacolo diventava morte.

Questo però non c’entrava con Alfredino.

Lui non era morto.

Lui non sarebbe morto.

Era solo in trappola. Sarebbe uscito dal pozzo e l’uomo nero sarebbe stato sconfitto. Nessun babau può fronteggiare la luce delle telecamere, e non c’è nessuna stanza buia di cui non si possa sfondare la porta grazie a una buona trivella.

Una geologa contestò il metodo del tunnel parallelo. Un manovale siciliano soprannominato L’Uomo Ragno si calò nel pozzo. Era smilzo, ma non abbastanza da raggiungere Alfredo. Riuscì comunque a parlarci.

Alfredo era vivo.

E Christian?

(continua in libreria…)

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