“Sognando la luna” è il nuovo romanzo di Michael Chabon, che racconta le ultime parole di un nonno al nipote, la confessione sul letto di morte degli inganni e delle menzogne che si celavano dietro un grande amore… – Su ilLibraio.it un estratto

Vincitore del Premio Pulizer 2001 con il romanzo Le fantastiche avventure di Kavalier & Clay (Rizzoli, traduzione di Luciana e Margherita Crepax), Michael Chabon è uno scrittore poliedrico e versatile, autore di romanzi tradizionali ma anche di fumetti, sceneggiature e libri per bambini. Le sue opere sono caratterizzate da un vocabolario ricco e dalla sperimentazione linguistica che lo contraddistingue, oltre ad alcune tematiche ricorrenti, come l’omosessualità, la bisessualità, l’ebraismo, la paternità e il divorzio.

Il suo nuovo libro, Sognando la luna (Rizzoli, traduzione di Matteo Colombo), narra di un amore passionale e travolgente ambientato nell’America di metà Novecento; una storia narrata in prima persona da chi l’ha vissuta: un nonno malato, giunto alla fine dei suoi giorni, che racconta al nipote come ha conosciuto sua moglie, donna misteriosa, una francese arrivata negli Stati Uniti dopo la guerra. Antidolorifici e farmaci rendono il nonno loquace, portandolo a rivelare un insieme di segreti e menzogne che sono state per anni seppellite nella memoria, le trame di un amore forte e irrazionale, un matrimonio celebrato negli anni del progresso tecnologico e industriale americano.

Sognando la luna è un memoir e allo stesso tempo una confessione: la confessione di una persona morente che, in una settimana, rievoca una vita intera e, con essa, la descrizione di un’epoca che a quella vita a fatto da sfondo, contraendo il tempo nelle parole, le ultime di un nonno al nipote.

Michael Chabon Luna copertina rizzoli

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto

A sentire lui, le prime parole che mia nonna disse al suo futuro marito furono: «La sua testa starebbe bene su un palo».

Gli si era avvicinata con una sigaretta da accendere infilata fra indice e medio, e un sopracciglio interrogativo – appena visibile, inarcato sopra la montatura degli occhiali. Nonno intuì subito, da quella pantomima e da altro – i suoi modi da ragazzina ma privi di goffaggine – che poteva essere straniera. Le accese la sigaretta con l’accendino di Aughenbaugh.

«Può ripetere?» disse il nonno, fermando la fiamma davanti alla punta della propria sigaretta. Riascoltò mentalmente le parole di lei. Decise che aveva sentito bene: gli aveva effettivamente detto che la sua testa sarebbe stata bene su un palo. «In che senso?»

Di teste umane gettate o piazzate in posti insoliti il nonno ne aveva viste, anche se effettivamente mai su un palo. Eppure mai gli sarebbe venuto in mente di proporlo come argomento di conversazione. Non vedendo gli occhi di mia nonna, non poteva trarre conclusioni affidabili sullo spirito con cui aveva pronunciato quella frase. Solo molto tempo dopo si rese conto che, con quel bizzarro atteggiamento, era riuscita a liquidare in un sol colpo tutto il problema dei convenevoli fra estranei.

«Ho sbagliato» disse la nonna. «Vedo che si è offeso.»

«È la mia faccia normale» rispose il nonno. «Ce l’avrebbe anche lei, se le piazzassero la testa su un palo.»

«Muro.» La parola le uscì di colpo, seguita da una sorprendente risata che aveva un che di asinino. Nonna si portò di scatto una mano alla bocca. «Mi scusi tanto. Volevo dire muro, non palo.»

«Questo cambia tutto» disse il nonno. Il suo approccio all’arte del flirt si basava sull’assoluta impassibilità.

«Un attimo» continuò lei, reprimendo un’altra risata asinina. «Ha mai visto una, come si dice, cat-te-dra-le?»

Con tre ampi movimenti delle braccia candide, mia nonna disegnò i muri, i pilastri e le guglie di una cattedrale. Li tratteggiò con un’economia di gesti quanto più vicina a ciò che poeti e telecronisti amavano definire «grazia» di qualsiasi cosa il nonno avesse visto. Nel saliscendi delle mani, la brace della sigaretta lasciava scie di tabacco incandescente, scintille arancioni che si riflettevano nelle lenti degli occhiali. Concluse disegnando un rosone, un cerchio tracciato con le dita sul petto, dove l’attenzione del nonno si era già posata. All’epoca i reggiseni erano strutture architettoniche; il petto di lei, così svettante, ampio e refrattario alla gravità, aveva un che di simile a una cattedrale, e lo commosse. Poi nonno vide che la ragazza, in cinque cifre grigio metallo sull’interno del braccio, portava incisa la storia recente della sua vita, della sua famiglia e del mondo. Ne lesse il breve contenuto e provò vergogna.

«Sì» disse. «Ne ho viste, di cattedrali.»

«Sui muri» proseguì lei. «I muri antichi.» Mise l’accento sull’ultima i. «Ci sono delle facce di pietra. Ecco, lei ha una faccia così.»

«Ah» disse il nonno. «Quindi sembro un gargoyle.»

«Sì! Cioè no! Non un…» e le venne la parola francese per gargoyle, che a distanza di quarantadue anni il nonno non ricordava più. «Quelli servono a raccogliere la pioggia, e sono degli animali, dei mostri, sono brutti. Lei non ha una faccia così.»

Era una bugia, almeno in parte. Più avanti, a uno dei suoi psichiatri, la nonna confessò che effettivamente lo trovava brutto, ma di una bruttezza attraente, perfino eccitante. La prima volta che lo vide, mentre sulla soglia della sinagoga meditava di andarsene prima ancora di essere arrivato, le era sembrato avere una faccia americana, un corpo americano. Due spalle come una Buick, una mascella da bulldozer. Solo se gli guardavi gli occhi dovevi concludere, come aveva fatto lei, che in realtà era molto bello.

(Continua in libreria…)

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