Con “Transumanza”, di cui proponiamo un capitolo, Giuse Alemanno narra una storia imprevedibile, un po’ romanzo picaresco e un po’ romanzo a chiave. Quello dell’autore pugliese è un libro “dedicato alla natura, alla cultura, alla libertà… e alle mucche!”
Giuse Alemanno, scrittore pugliese classe ’62, vive tra Taranto, Martina Franca e Manduria, e ha pubblicato diversi libri, tra cui il romanzo Terra Nera (Stampa Alternativa, 2005), i due romanzi su Don Fefé e Ciccillo, e due testi sull’Ilva di Taranto. Come belve feroci è stato il primo capitolo della saga dei Sarmenta, a cui hanno poi fatto seguito seguito Mattanza (Las Vegas edizioni, 2019) e Nero finale (Las Vegas edizioni, 2022).
Proprio Las Vegas edizioni porta ora in libreria Transumanza: dopo la nerissima “trilogia dei Sarmenta”, Alemanno narra una storia imprevedibile, un po’ romanzo picaresco e un po’ romanzo a chiave, un libro “dedicato alla natura, alla cultura, alla libertà… e alle mucche!”.
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Dino Di Cristina, il protagonista, ha partecipato alla punizione di un gerarca fascista, e per questo è costretto a scappare. L’unica via di fuga è quella di unirsi a un gruppo di bovari antifascisti, che stanno partendo per la transumanza. Dino non sa nulla delle mucche, ma il viaggio lo scaraventa in avventure sorprendenti, che affronta insieme ai suoi compagni “speciali”, tutte figure che ricalcano personaggi famosi della storia e della letteratura. Tra una setta di credenti pronti a gettarsi in un fiume per cercare la salvezza, banditi locali e una ragazza strappata ai suoi aguzzini, Dino e tutti gli altri devono arrivare alla meta…
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo l’incipit:
Il fascismo aveva trasformato il buon senso in conquista. Il vivere civile era bandito, anch’io lo ero diventato e altri con me. Perché la mia non era una condizione privata: in diversi subivamo. Gocce di pioggia su un piano inclinato, da lacrime sparse diventammo rivolo, poi corso d’acqua dolente. Furono le botte e l’olio di ricino somministrato con violenza a Franco Mancini che ci resero impetuosi.
Trovammo coraggio e bersaglio: il podestà Domenico D’Angelo, mazzolatore vile, capo delle Camicie Nere di Graticelle d’Abruzzo, speculatore e medico condotto, giammai in galera. Franco Mancini non ammortizzò l’umiliazione subita. Lasciò il paese insieme alla famiglia, nessuno ne ha saputo più nulla. Ma i colpi che la squadraccia di Domenico D’Angelo gli dedicò, noi ce li sentivamo addosso: sul viso, sulle spalle, nelle viscere.
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Reagimmo.
Io e altri due compagni, di cui evito il nome per loro tutela, studiammo le abitudini del podestà. Erano incostanti, vanesie, spesso bizzarre.
I fascisti son stupidi, si sa. Ma un aspetto ricorrente c’era: l’acquisto di certi maritozzi grandi quasi quanto un melone giallo rugoso e cosentino – ripieni e sbuffanti di panna bianchissima – ogni domenica e festa comandata segnata in rosso dal calendario. Era con quella confezione impegnativa, che la pasticceria Punzi eseguiva a regola d’arte, pregiandola con nastri dorati e fiocchi vezzosi, che il podestà tornava a casa per il pranzo della festa.
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Il percorso che separava la pasticceria da Casa D’Angelo era breve: bastava girare un angolo a destra, percorrere una via stretta in leggera salita di nemmeno sessanta metri e si spuntava su piazza Giuseppe Garibaldi, dove il dottor D’Angelo aveva comprato una notevole casa padronale da mastro Davide Càffaro. Il podestà l’aveva acquistata per due soldi e la promessa di dimenticare
le origini ebree del vecchio proprietario. Il fatto era oggetto di ilarità.
Il podestà non mancava di rimarcare l’ottimo affare: «Nemmeno i Ciano son capaci di colpi così! E sì che quelli, a Livorno…». E roteava una mano a mostrar che sapeva di speculazioni e retroscena oscuri. Di tali parole si gloriava con i suoi sodali. E a chi lo invitava alla prudenza, sottolineando che un podestà non dovrebbe mai esporsi a favore di un ebreo, D’Angelo rispondeva: «Nessuna esposizione. Gli ebrei possono stare sereni finché il Duce non deciderà altrimenti. E quindi pure mastro Càffaro può beneficiare della mia indulgenza e delle mie rassicurazioni. Ma se il Duce deciderà in altro modo, la mia comprensione e stima nei confronti di mastro Càffaro resteranno inalterate, però io obbedisco al Duce, mica a un ebreo.» A tale conclusione non mancava mai un corollario di risate.
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Stimammo idonea la via stretta tra la pasticceria e piazza Garibaldi per spegnere l’allegria del podestà. Preparammo ciò che serviva; in verità poco. Ci organizzammo per bene.
Arrivò domenica. Il podestà si trattenne a chiacchierare a lungo con certi suoi subordinati, infine entrò in pasticceria. La guantiera lussuosa preparata da Felice Punzi in persona era già pronta. Il podestà la prese e uscì. Pagare? Ma quando mai. Ingoffato dal pacco prelibato, entrò a passo veloce nella strada stretta che lo portava in piazza. Di fronte a lui arrivava un giovanotto con il cappello calato sugli occhi. Stava quasi per incrociarlo quando sentì uno scalpiccio alle sue spalle. Il dottor D’Angelo non capì cosa accadde, data la velocità dei fatti.
Il podestà non si era accorto di essere stato seguito da due giovani uomini, mentre un terzo gli veniva di fronte. Io fui brillante: mi posizionai a quattro zampe proprio nel momento in cui il mio compagno incrociava il podestà. La spinta che raggiunse il dottore non fu nemmeno così violenta, ma il dislivello del manto stradale armonico al fatto che io fossi dietro di lui mandò il dottor D’Angelo a gambe per aria, proiettando i maritozzi nell’alto dei cieli. Il podestà crollò a terra, fulmineo il terzo di noi gli affibbiò un gran calcio in faccia, frantumandogli denti e mascella. In certi frangenti, gli scarponi da montagna aiutano.
«Con i saluti di Franco Mancini. Adesso sognateli i maritozzi di Punzi. Nei prossimi mesi ti mangerai ’sto cazzo, infame.» Poi gli versò addosso un secchio di merda di maiale, piuttosto liquida.
Fuggimmo.
(continua in libreria…)
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