In occasione dell’uscita del romanzo “Urla sempre, primavera” di Michele Vaccari, su ilLibraio.it un estratto. Genova e la sua memoria (dalla Resistenza al G8) costruiscono l’ambientazione di tutte le vicende dell’opera

Michele Vaccari, scrittore ed editor nato a Genova nel 1980, già autore di Italian Fiction (2007), Giovani nazisti e disoccupati (2010), L’onnipotente (2011), Il tuo nemico (2017) e Un marito, con Urla sempre, primavera (NN editore, con le illustrazioni di Rocco Lombardi) continua il gioco di trasfigurazione politica della storia italiana che aveva iniziato nei suoi romanzi precedenti.

Per Zelinda, infatti, il presente è un mondo da cui scappare, per mettere in salvo la creatura che porta in grembo e i suoi sogni di rivoluzione. Per il commissario Giuliani è l’unica possibilità di condannarsi fino alla fine, per il tradimento insostenibile compiuto verso la famiglia e la donna amata. Per Spartaco è la Resistenza, da raccontare alla nipote Egle. Il presente, il passato e il futuro entrano senza bussare nella vita di Egle che, depositaria di una storia e di un ideale, è l’unica in grado di realizzare i sogni.

Nel mondo di Vaccari la società non esiste più, i vent’anni che abbiamo davanti hanno dissolto istruzione e scienza, avvelenato terre, boschi e città. Il Paese è governato da un’oligarchia di uomini anziani, e i cittadini devono accettare di estinguersi. Ma in un contesto soffocato dall’ignoranza e dalla paura, che sembra aver perso la capacità di creare il cambiamento, la scintilla del sogno è così potente da piegare la realtà, da aprire la strada a una rivoluzione dell’immaginazione, dove la natura supera sé stessa, dando vita a una nuova umanità.

Urla sempre, primavera è romanzo da leggere come un libro d’avventure: parla di storia e destino, di amore e lotta, e affida a quattro personaggi – la rivoluzionaria Zelinda, il partigiano Spartaco, il commissario Giuliani e la messianica Egle – il racconto di un’era. Il territorio di Genova e la sua memoria (dalla Resistenza al G8) costruiscono l’ambientazione di tutte le vicende dell’opera.

Urla sempre primavera, Michele Vaccari

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

8 settembre ’43, collina

Laggiù, nessuno ha la propria lingua.

Laggiù, lo spazio non esiste: qui, lo spazio è un luogo, nel sogno mai; il tempo ha dei limiti: nel sogno, il tempo no; i vivi parlano coi morti e viceversa, viceversa, se questo sogno non vi arriva, spero sia il contrario, che voi sogniate me. Non sono la sconosciuta che assomiglia a qualcuno che amate, io sono Egle, quella della cicatrice, fatevi avanti, insieme possiamo fermare il vostro mondo prima che precipiti e diventi il mio.

Se mi incontrerete nei vostri sogni, chiedetemi di raccontarvi come andrà, la storia è la storia di una bambina di quattro anni del 2026, le hanno regalato il destino di tutti, il mio passato è il vostro presente tra qualche anno, guardate, ora vivo nel bosco, lo chiamo bosco ma per tutti è diventato il male. Vi diranno che gli alberi uccidono, che sono tossici perché producono anidride carbonica. Faranno lo stesso con gli animali, riusciranno a vietarli, ogni virus che metterà a repentaglio la vostra vita sarà colpa loro. Ecco, siamo arrivati. Questo è il mio albero del cuore, dentro la sua pancia c’è stata la mia vita a lungo, ero figlia, e questo era sbagliato: essere madre era fuorilegge, gli Animali lo sapevano, per questo siamo diventati una cosa sola, una famiglia contro natura, contro Metropoli, contro la deriva cui eravamo condannati.

Vivere coi miei è stato perfetto, finché il figlio del signor Carlo non ci ha traditi e allora siamo corsi via. Quando ho visto papà lasciarmi la mano, buttarsi giù dalla scarpata, il suo corpo che faceva il rumore di un fiume che esplode, tanto, tanto, tanto, mi sono augurata ce l’avesse fatta, che l’acqua l’avesse salvato come fa con gli uomini quando devono formarsi per venire al mondo, poi mi sono guardata intorno.

Eravamo io e basta, e allora a cosa serviva ricordare come stavo bene con mamma e papà?

Dovevo agire, agire e poi pensare, dice mamma nelle sue registrazioni.

Ho visto questo pioppo, volevo sporgermi da un ramo per scoprire se da qualche parte ci fosse una libertà migliore di quella a cui mi sentivo costretta. Non faccio in tempo a mettere la punta di una scarpa sulla corteccia che sento le grida. Sono le Milizie, mi hanno visto, prendo a correre per la salita che fa la terra per raggiungere la cima, un attimo ed ero già lassù, nell’alto difficile da raggiungere che creano qualche volta le colline quando sono poco antiche. Le Milizie non si arrendono, mi indicano, fanno gruppo, corrono verso di me. Io non so dove scappare, alle mie spalle il vuoto, una discesa che porta a una conca che a guardarla in questa situazione mi sembra solo un’enorme bara scoperchiata. Mi volto indietro, sono sempre più vicine. Vorrei mettermi in ginocchio, non so se mi potrebbe salvare, papà quando aveva paura ogni tanto lo faceva. Non voglio morire. Non voglio vederlo. Stringo gli occhi, aspetto le lacrime che mi fanno respirare. Poi l’odore cambia. Senza che io abbia fatto nulla, dal bosco alla mia sinistra, gli Animali si avvicinano, poi diventano tutti. Nemmeno mi guardano, si mettono in fila, si schierano, formano una trincea per difendermi. Io non so se, boh, qualcuno di loro ha un dono come me e può sapere chi sono o invece sia bastato sentire i caricatori delle armi per pensare: è uguale a noi, anche lei è stata abbandonata, anche lei è un bersaglio, dobbiamo aiutarla.

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Non importa.

Ciò che conta, è la reazione che suscitano: le Milizie si bloccano, come congelate. Guardano la muraglia di Animali pronti alla difesa del territorio, cioè io. Sono addestrati a obbedire, non vuol dire che ci credano, ho scoperto con la vita che a niente si è fedeli come alle nostre paure: un animale pronto ad attaccarti ha a che fare con la nostra venuta sul pianeta.

Non si teme per la vita, si teme per la specie.

Indietreggiano, perdono campo come arroganza, si dicono a vicenda di fare piano, dalle radure spuntano alcune famiglie di orsi, si alzano sulle zampe, rugliano, i soldati fanno un breve scatto, sono indecisi se darsi a una ritirata indecorosa o continuare a muoversi al rallentatore, appena arrivano ai loro fuoristrada mettono le prime marce e le tirano come per riuscire a spiccare il volo. Li invidio, mentre li guardo tornare alle loro case, ai loro figli, ai loro genitori.

Quando si allontanano, mi viene da dirgli grazie, ma sono esausta, mi corico appena. Così, di quel giorno zero, ho un primo ricordo, ma ciò che conta è il secondo, il ricordo che mi nasce quando senza accorgermene mi ritrovo a sognare.

(continua in libreria…)

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