Nel romanzo “Vite rubate” Marco Vichi e Leonardo Gori contrappongono alle ombre dell’immigrazione in Italia la radiosa storia d’amore tra Marek e Aleya. Il primo è in cerca di riscatto dopo anni di sfruttamento, la seconda è in fuga da uomini che la mercificano. Un libro sull’amore come fonte di speranza e redenzione – Su ilLibraio.it un estratto

Due vite spezzate da un passato logorante ma destinate a incrociarsi. Una storia d’amore come forma di riscatto, come àncora a cui aggrapparsi per fronteggiare quanto di più amaro la vita ha da offrire.

Sono queste le coordinate principali di Vite rubate (Guanda), romanzo scritto a quattro mani da Marco Vichi e Leonardo Gori, due grandi firme del noir italiano. Un libro che scandaglia l’Italia dell’immigrazione, tra sfruttamento, violenza e povertà.

Una storia d’amore dal ritmo serrato e concitato, che riprende gli stilemi del genere noir che hanno reso celebri gli autori del commissario Bordelli e del ciclo di romanzi di Bruno Arcieri.

Vite Rubate Marco Vichi Leonardo Gori

Il romanzo narra la storia di Marek e di Aleya. Il primo è un ragazzo che, dopo una vita fatta di stenti e troppi inappaganti lavori, si ritrova disoccupato. Il diploma che la madre dopo tanti sforzi gli ha fatto prendere non serve a nulla. Quando sul giornale legge che cercano braccianti per raccogliere pomodori nel Sud Italia ha un’illuminazione: lascia Cracovia zaino in spalla e con un biglietto di sola andata verso il miraggio del lavoro sicuro.

Aleya invece non sa cosa voglia dire sognare. In Nigeria ha scoperto che la sua bellezza è una in realtà una condanna. Il suo corpo non è altro che un mero strumento di piacere per quegli uomini che la rapiscono e la scaricano con crudele indifferenza sulle coste italiane.

Due sorti tragiche destinate però a incrociarsi e a far nascere un intenso amore. Un barlume di speranza da salvaguardare ad ogni costo, unico faro in una coltre di violenza e soprusi.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto:

L’uomo con il cappello aspettò con pazienza che i nuovi arrivati recuperassero il bagaglio, fumando un sigaro puzzolente. Sotto la luce giallastra del lampione turbinavano nuvole di zanzare inseguite da grossi pipistrelli. Gli uomini sembravano fantasmi. Nessuno parlava. Il sudore colava abbondante e i vestiti si attaccavano alla pelle. Là intorno nella penombra, vicino all’ingresso delle baracche, si scorgevano figure silenziose appoggiate a un palo o sedute sopra un’invisibile panca.
Quando i polacchi furono pronti, l’uomo con il cappello si fece consegnare da ognuno il documento d’identità. Serviva per compilare il contratto di lavoro, disse. Li mise tutti in uno zaino e li consegnò a un ciccione che se ne andò sopra una vecchia Fiat. Poi l’uomo con il cappello guidò i polacchi fino a una delle baracche. Spinse la porta e accese una lampadina fioca che pendeva dal soffitto. Entrarono tutti. Il caldo era soffocante. Nello stanzone puzzolente di sudore c’era solo una lunga fila di letti a castello, e Marek pensò alle baracche di Birkenau. Letti vuoti, a prima vista. Ma nella penombra cominciarono ad apparire degli occhi e si sentì mormorare qualche bestemmia assonnata, in polacco.

L’uomo con il cappello ignorò le proteste e continuò a fumare il suo grosso sigaro, guardando distrattamente i nuovi arrivati che si sceglievano un letto. Poi si mise a fare una telefonata con il cellulare. Marek non aveva più un cellulare. Glielo avevano rubato due volte e alla fine era stato costretto a fare senza. Meglio così, era una spesa in meno.

Arrivò un altro tipo, un polacco grasso con l’aria del capo e la faccia lucida di sudore. Su una guancia aveva una voglia rossastra che sembrava un’ustione. Disse che si chiamava Stefan e che anche lui aveva raccolto pomodori, un tempo. Scacciandosi le zanzare sulle braccia si mise a spiegare come funzionavano le cose. Primo: a comandare in quelle baracche era lui. Secondo: ogni mattina a decidere chi andava a lavorare e dove era lui. Terzo: per il letto ognuno doveva pagare cinquanta euro al mese, circa centosettantacinque zloty. Ci fu un mormorio, e il caporale alzò la voce. Pagamento anticipato, aggiunse. Aspettò di avere in mano i soldi di tutti, e dopo esserseli infilati in tasca continuò. Quarto: l’orario di lavoro era dalle sei di mattina alle dieci di sera, con una pausa di mezz’ora per mangiare. Quinto: la paga era di trenta euro al giorno, ma cinque euro toccavano a lui. Sesto: il viaggio fino al campo costava altri cinque euro a testa al giorno, compreso il ritorno. Settimo: il giorno dopo i nuovi arrivati avrebbero cominciato a mezzogiorno, per avere il tempo di riposarsi dopo il viaggio. Fece una lunga pausa, e nei suoi occhi passò un lampo di fredda generosità.

« Ora sapete tutto » disse, per concludere.

Calò il silenzio, e il caporale Stefan rimase a fissare gli uomini con uno sguardo che non invitava al dialogo. Nessuno ebbe la forza di lamentarsi, erano troppo stanchi. Dopo un’ultima occhiata alla truppa il caporale uscì dalla baracca, seguito dall’uomo con il cappello. Benvenuto in Italia, pensò Marek.

« Com’è il lavoro? » chiese uno dei nuovi.

« Domani lo vedi » rispose uno di quelli che erano stati svegliati.

« Hanno detto che firmiamo un contratto. »

« Certo, come no. »

« Ma ci hanno preso i documenti per quello…»

« Non li rivedi più fino a settembre, i documenti » disse un ragazzo, sorridendo con amarezza. Ci fu un lungo secondo di silenzio, carico di tensione. Nella penombra saettavano sguardi.

« E che se ne fanno dei nostri documenti? » chiese Marek.

« Se la polizia ti trova senza documenti ti rimandano a casa a calci nel culo… Ecco cosa se ne fanno. »

« Sei pazzo? »

« Lo vedrai se sono pazzo. »

« Dove lo trovo un cesso? » chiese un ragazzo giovanissimo, con gli occhi spauriti.

« Esci fuori, tutto quello che vedi è il cesso » disse una voce assonnata. Qualcuno riuscì anche a ridere.

« Cazzo, volete lasciarmi dormire… » disse un’altra voce, e tutti fecero silenzio.

Per una mezz’ora ci fu un po’ di movimento dentro e fuori dalla baracca. Le ombre vagavano alla ricerca di un posto appartato per fare i bisogni, fumavano sigarette, bevevano un sorso di vodka per aiutare il sonno, ma l’alcol faceva sudare ancora di più.

Finalmente si sdraiarono tutti e la luce venne spenta. Le zanzare non davano tregua, ma dopo un po’ qualcuno si mise a russare. I materassi erano logori, puzzavano di mille sudate e di piscio. Non era quello il letto che Marek aveva sognato durante il viaggio. Si girò su un fianco. Se l’aria della notte era così calda chissà come doveva essere di giorno. Gli era capitata una brandina in alto. Si era tolto la camicia sporca e se l’era arrotolata sotto la nuca per usarla come cuscino. Grosse gocce di sudore gli colavano dalla fronte e dal petto. Da fuori filtrava appena la luce del lampione, e poco dopo riuscì a distinguere i contorni delle cose. Erano le due e mezzo. Solo ventiquattro ore prima aveva abbracciato sua madre sulla porta di casa, e adesso era qui. Era in Italia, nella ricca Italia.

(continua in libreria…)

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