A quale patria dichiararsi fedeli, quando sei un immigrato? “I patrioti”, romanzo di Sana Krasikov (nata in Ucraina e poi trasferitasi negli Stati Uniti), prova a rispondere a questa domanda, raccontando la storia familiare di una migrante americana nella Russia degli anni ’30. ilLibraio.it ha intervistato l’autrice, che ha parlato anche dell’invasione russa in corso

A quale patria dichiararsi fedeli, quando sei un immigrato? A questa la domanda prova a rispondere il romanzo I patrioti di Sana Krasikov, tradotto da Velia Februari e pubblicato da Fazi a distanza di 5 anni dalla sua uscita negli Stati Uniti.

La scrittrice, che collabora con il New Yorker e l’emittente radiofonica pubblica americana NPR, è nata nel 1979 in Ucraina e si è trasferita negli Stati Uniti negli anni ’80: una storia speculare a quella della protagonista del suo romanzo, Florence, che dall’America della Grande Depressione sceglie di inseguire un amore e i suoi sogni fino in Russia. L’esordio letterario di Krasikov è stato tradotto in undici lingue e ha vinto in Francia il premio per la letteratura straniera nel 2019.

Il suo romanzo è stato pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2017, agli inizi dell’amministrazione Trump, prima di Biden e soprattutto prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Il libro continua a generare riflessioni sulle relazioni tra Russia e America. Come è nato, da quale urgenza?
“L’idea di partenza mi è arrivata durante una serata d’estate a Cape Cod, ascoltando il mio amico Timothy raccontare di come aveva provato a convincere la madre a migrare con lui negli Stati Uniti. La parte che ignoravo era che la madre era americana, nata e cresciuta a Brooklyn. Si è trasferita in Unione Sovietica negli anni ‘30, e per un po’ ha vissuto l’eccitante vita da espatriata. Quando ha provato ad andarsene, qualche anno dopo, era troppo tardi: era in trappola. Tim ci aveva raccontato molte storie  affascinanti sul fatto di essere nato in Russia da due genitori americani, costretto a tenere le sue origini segrete, mentre la madre scontava la pena in un Gulag, sballottato tra orfanotrofi di stato. Ma quella sera, illuminata dalla luce del tramonto di Cape Cod, ci ha svelato dettagli che non avevo mai sentito prima”.

Ad esempio?
“Come quando da adulto, nel 1970, mentre progettava il ritorno della famiglia negli Usa, sua madre inizialmente si rifiutò di andare con loro. Non pronunciava nemmeno la parola America. ‘Ancora ti stai preparando per andare in… quel posto?’, diceva lei. Tim attribuì quel rifiuto a un idealismo arrogante, uno sciocco attaccamento alla causa. Io ero convinta di averci sentito qualcos’altro: la paura. Non la solita paura di un migrante di dirigersi verso un nuovo paese o di imparare una nuova lingua. Lei aveva paura di tornare a casa”.

Sana Krasikov i patrioti

Come definisce la sua nazionalità, se lo fa?
“Sì, lo faccio, ma credo che dipenda da come uno definisce il concetto di nazionalità. Suppongo che dopo tre decenni negli Stati Uniti io sia americana. Quanto alle radici, mi considero per lo più un’ebrea dell’Est-Europa, anche se risulta che abbia un quarto di altre cose, e mio padre in particolare è risultato essere in parte italiano, basandosi su un test genetico casalingo che un amico gli ha regalato per il suo compleanno”. 

Ci sono nel libro delle connessioni con la sua esperienza personale?
“Il libro non è autobiografico, ovviamente, ma il dettaglio che ho appena menzionato della madre di Timothy che non voleva tornare in America mi ha colpito molto, quando l’ho sentito per la prima volta, perché mi ha suggerito un percorso di vita così differente, direi quasi l’opposto, del mio”.

Ci racconti.
“Sono emigrata negli Stati Uniti con la mia famiglia nel 1987. Abbiamo abbracciato il sogno americano. Quando sono arrivata in America, ho sentito immediatamente il desiderio di far diventare permanente questa casa adottiva. Come sarebbe stato, invece, lasciare l’America da giovane per tornarci solo da anziana? Cosa avrebbe voluto dire essere un’americana che vive nel periodo più truce dell’Unione Sovietica? Cambierebbe la tua lealtà come cittadina? Come moglie? E come madre?

Il libro copre un ampio lasso di tempo e segue la storia di tre diverse generazioni, per andare a tratteggiare un compendio del potere nei governi imperialisti. Come ha utilizzato le fonti storiche?
“Ho iniziato a raccogliere materiale per questo libro nel 2008, lo stesso anno in cui gli Stati Uniti e il resto del mondo si sono trovati nel mezzo di una crisi economica. Facendo la spola tra New York e Mosca, sentivo che le insicurezze mie e dei miei amici richiamavano quelle del mio personaggio, Florence, che si laureava nella morsa della Grande Depressione. Queste insicurezze sono più che meramente economiche: molti dei trend che vediamo oggi sono innescati dall’incertezza economica e dalle contrazioni del mercato – tensioni di classe, risentimento razziale, retorica nativista, polarizzazione politica. Tutto ciò prosperava negli anni ‘30. Tipico degli anni ‘30, come oggi, era la percezione diffusa che l’America avesse perso la sua grandezza e stesse soffrendo di una sorta di umiliazione o si trovasse al di sotto delle aspettative. Prima che venisse chiamata ‘grande depressione’, era stata chiamata crisi del capitalismo. Il popolo perdeva la fiducia nel sistema capitalistico, nel paradigma liberale del mercato auto-regolamentato. C’era la sensazione che quell’epoca che avesse i giorni contati, per alcuni accompagnata da una sorta di gioia, e che le previsioni di Marx si stessero per realizzare”.

Queste scoperte hanno contribuito a cambiare la sua opinione?
“Mi stavo immergendo nella politica, nel pensiero e nella cultura degli anni ‘30. Più leggevo, più mi rendevo conto quanto quel decennio fosse stato influente per tutto il XX secolo, quanto di ciò che ci risulta familiare venne fuori da lì. Capii che la Depressione non era un semplicemente un fondale o una scena per il mio libro. Quel decennio ha modificato la psiche e la personalità di un’intera generazione, ma in modi sorprendenti, che stavo soltanto iniziando ad apprezzare, perché stavamo vivendo un periodo molto simile”.

Può fare un’esempio?
“Leggevo questo articolo di giornale in cui si chiedeva ai lettori di identificare se una serie di citazioni appartenesse a Donald Trump o a Bernie Sanders. Non appartenevano a nessuno dei due: la persona citata era il senatore Huey Long, un oratore populista, le cui denunce facevano accapponare la pelle al mio personaggio Florence. Nel libro, si lamenta con il suo amante russo proprio di Huey Long e di Padre Coughlin, il famoso ‘prete della radio’, le cui arringhe contro bolscevichi, ebrei e i bancari da quattro soldi di Wall Street, era costretta a sorbirsi dalla radio del suo proprietario di casa. Come Trump, questi individui sono diventati dei maestri di iperbole, umorismo e sarcasmo, e hanno spinto decine di milioni di americani a sintonizzarsi e ad assistere ai loro raduni. Come oggi, le classi più istruite e la stampa hanno provato a liquidare Coughlin come un demagogo da strapazzo, mentre grandi fette del Paese, non solo i poveri, ma anche grandi segmenti di middle class, hanno sostenuto le idee di quest’uomo, che ha flirtato con il fascismo e anche con il socialismo. Come i social media oggi, il nuovo mass media della radio improvvisamente dava forza a una peculiare forma di populismo e demagogia”. 

Ritiene che la guerra in corso abbia cambiato il modo in cui il romanzo viene letto? E che abbia acquisito un nuovo scopo?
“Quando ho finito di scriverlo, ho pensato: non scriverò mai più di Russia, niente cambia in quel posto. In quanto testimone di questa guerra, come lo siamo tutti, ha in un certo senso confermato questo punto di vista. Spero davvero che venga letto per comprendere meglio la psicologia dei russi e per capire perché sono così fedeli ai loro tiranni”.

Esiste un’edizione russa del libro?
“Curioso, ma esiste una versione russa, che ha mantenuto il mio titolo originale, i rimpatriati. Tuttavia, i traduttori erano negli Usa ed è stato pubblicato da una casa editrice indipendente per i lettori russi in America e Israele. Si è palesato dell’interesse da una casa editrice in Russia, ma non sono sicura che sia concluso l’acquisizione dei diritti”.

Di cosa parlano i suoi lavori più recenti?
“È uscito di recente un mio racconto sulla guerra in Ucraina sul New Yorker, dal titolo The Muddle, ma il romanzo che sto completando parla della censura di uno scrittore di libri per bambini negli Stati Uniti degli anni ‘80. L’argomento è molto diverso, ma copre lo stesso ambito tematico del lavoro precedente. Sono anche autrice di un podcast internazionale che conduce mio marito (Gregory Warner, ndr) su NPR, la radio pubblica americana, dal titolo Rough Translation – Storie lontane che colpiscono vicino a casa“.

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