Nel romanzo “Vocedavecchia”, la spagnola Elisa Victoria racconta di un’infanzia fatta, insieme, di innocenza e perversione, di scoperte e di assenze, di desideri e di paure. L’autrice ne parla con ilLibraio.it: “Ho voluto costruire una storia in cui fossero mostrati tutti i contrasti dell’infanzia, divertenti e oscuri, dolci e cattivi, piacevoli e inquietanti” – L’intervista

È il 1992. A Siviglia viene inaugurata l’Esposizione Universale, dal tema L’era delle scoperte. Sempre a Siviglia, e sempre in tema scoperte, Marina sta vivendo la sua infanzia nei quartieri popolari della città. Ha nove anni e, a scuola, viene chiamata Vocedavecchia.

Marina cresce in mezzo alle donne, insieme a una nonna coloratissima e una madre spesso assente perché impegnata a superare una grave malattia. Marina e la nonna parlano di amore, di mariti e di amanti, di desideri e di voglie, senza i mezzi termini che spesso filtrano la comunicazione con i bambini.

Per riempire il vuoto lasciato dalla mamma e dalle incomprensioni con gli altri bambini, Marina si rifugia nei fumetti per adulti, nelle bambole Chabel e in desideri sessuali di cui, ancora, non conosce né forme né confini.

Elisa Victoria – anche lei, come la protagonista, nata a Siviglia (nel 1985) – racconta di un’infanzia fatta, insieme, di innocenza e perversione, di scoperte e di assenze, di desideri e di paure. Vocedavecchia (Blackie Edizioni, traduzione di Elisa Tramontin) è il suo primo romanzo, seguito da El Evangelio e dalla graphic novel El quicio.

A noi ha ricordato il recente esordio di Andrea Abreu, Pancia d’asino, ambientato a Tenerife, e ha portato a galla curiosità e domande, che abbiamo rivolto direttamente all’autrice.

vocedavecchia

Cosa dobbiamo sapere di lei?
“Non lo so… Vivo nelle montagne del Sud della Spagna con un sacco di gatti. Credo che l’unica cosa rilevante di me sia che ho scritto questo libro, che spero farà divertire”.

Se dovesse sintetizzarlo in una frase, di che cosa parla il romanzo? E cosa ha voluto raccontarci con questa storia?
“Il mio romanzo parla degli strati che si nascondono sotto l’apparente semplicità dell’infanzia e di come questi possano essere apprezzati, in modo particolare, nella densità dell’estate. Ho voluto costruire una storia in cui fossero mostrati tutti i contrasti dell’infanzia, divertenti e oscuri, dolci e cattivi, piacevoli e inquietanti. Ho cercato di scrivere un libro che fosse divertente e filosofico, da un punto di vista molto accessibile. Nel migliore dei casi, il mio sogno era quello di far ricordare alle persone i sentimenti perduti del passato, aiutandole a comprendere meglio quanto i bambini siano sensibili e ricettivi e come debbano essere trattati e rispettati”.

Vocedavecchia è un romanzo intenso, sincero e anche duro, a tratti. Cosa l’ha spinta a scriverlo, quale urgenza?
“Sono sempre stata affascinata dalle voci dei bambini nella narrativa e avevo già scritto alcuni racconti da quella prospettiva, ma sentivo che c’era qualcosa di più grande da esplorare, e avevo paura di dimenticare le sensazioni dell’infanzia. Così, lavorare a questo libro, è stato come scrivere una specie di saggio usando i miei ricordi e tutte le mie ricerche sull’essere bambini. Ora tutti quegli appunti sono salvi”.

Ogni autore affronta il gesto della scrittura in modo personale. Chi scrive per anni a tempo perso, chi si chiude in casa per settimane, chi pensa prima ai personaggi e chi alla storia. Qual è il suo “metodo di scrittura”, se ne ha uno?
“Ho sempre fatto tutto assecondando il momento. In questo caso, ho impiegato quattro anni per scrivere il romanzo., mentre lavoravo come giornalista. Per prima cosa ho pensato al personaggio di una bambina e ai suoi rapporti con la nonna, la madre e l’estate. L’estate, in generale, è diversa per ogni bambino e quell’anno, il 1993, è stato particolarmente estremo nel luogo in cui sono cresciuta, e questo è stato un altro aspetto fondamentale per me. Di solito lavoro partendo dall’impulso di esplorare il modo in cui i personaggi affrontano un ambiente concreto e comincio a prendere appunti su come potrebbero essere e sulle possibili linee temporali, cercando di far funzionare le diverse voci nel contesto e facendo un gran lavoro per capire quando le cose dovrebbero accadere. A quel punto, prendo tutte le informazioni e capisco come metterle insieme per costruire un’intera narrazione”.

“Ancora non capisco del tutto che non rimarrò per sempre intrappolata in questo carcere chiamato infanzia, che a un certo punto crescerò e dovrò affrontare problemi peggiori”. L’infanzia di Marina è un’infanzia che, nel racconto, si percepisce come presenza concreta, come un personaggio a sé, con caratteristiche e tratti ben precisi. Che sapori, che odori e che colori ha, l’infanzia? Se fosse davvero un personaggio, come lo descriverebbe?
“L’infanzia ha un odore, un sapore e un aspetto diversi per ognuno, ma è sempre molto intensa. Sembra lunga, come composta da anni e anni in slow motion. Per me ha la luce gialla del Sud della Spagna, l’odore delle vecchie riviste e delle bambole nuove mescolati con quello della cucina disordinata di mia nonna. Ha il sapore delle patate fritte, delle fragole zuccherate, dei panini al chorizo, del pasticciaccio industriale e della polvere. Direi che l’infanzia è spaventosa e luminosa come un fantasma mattutino”.

“Vocedavecchia.”
È Juan Carlos. Detesto che mi chiami così. Sembra un insulto, ma non vuol dire altro che ho la voce roca e uso espressioni tipiche di un’anziana, d’altro canto apprezzo la sua confidenza. Che mi dia un soprannome significa che mi conosce.
È così che racconta il titolo del romanzo. Titolo che parla di una voce da vecchia nonostante tutta la storia sia narrata dal punto di vista di una bambina. In che cosa sono diverse le “vocidavecchia” e quelle “dabambina”? Cosa può permettersi di dire l’una che l’altra non può dire?
“Le due voci sono mescolate in ogni pagina. I sentimenti profondi con quelli sconosciuti. Penso che ogni bambino possa avere entrambe le voci nella sua testa e io mi sento solo una traduttrice di tutto questo”.

“La mia eredità viene trasmessa soltanto da donne”. Cos’è un’eredità “al femminile”? Cosa tramandano le donne alle altre donne?
“In questo caso particolare gli uomini sono per lo più un’assenza e le donne trasmettono tutto ciò che hanno, dal nome e cognome, alle decisioni, ai beni, ai modi di parlare e di fare, ai ricordi. Credo che ciò che le donne trasmettono alle altre donne dipenda dal tipo di donna che sono. Può essere un nome, un’estetica, un modo di prendersi cura delle persone e delle cose o di gestire l’economia, un particolare senso dell’umorismo. Può essere anche rabbia, competitività, ignoranza o conoscenza, canzoni, paura, forza, può essere qualsiasi cosa. Quando ero giovane ho letto molti libri scritti da uomini in cui i personaggi maschili erano sensibili e complessi e le donne erano rappresentate come qualcosa di lontano, mancante, desiderato ma difficile da trovare e comprendere. Questa stessa cosa può valere per entrambe le parti”.

Consapevole che ogni romanzo sia, in fin dei conti, un’autobiografia, quanto della sua storia c’è in questa storia?
“Molto del modo in cui Marina pensa si basa su come pensavo io a quell’età e su ciò che osservavo in quel periodo intorno a me. Ero cupa ma anche divertente, piena di dolore e di speranza. Ho preso molti appunti mentali sulle dinamiche infantili che io e i miei amici seguivamo e più tardi, nella mia vita, ho avuto molte conversazioni sull’essere bambini e letto molto sull’infanzia in generale. L’infanzia è sempre stato un argomento caldo per me, e tutto ciò è diventato estremamente utile per questo libro. Ho cercato di concentrarmi e di evocare il più possibile quegli appunti, quei ricordi, quelle sensazioni e quello stile di vita. Alla fine volevo dimostrare che i bambini sono esseri umani completi. Io, allora, non ero in costruzione, ero una persona in transito come tutte le altre, proprio come mi sento ora, con interessi, preoccupazioni e cose da fare. In più, devo dire che ho avuto un rapporto molto stretto con mia nonna”.

Ci racconti.
“Era una donna molto concreta, spiritosa, frizzante, sicura di sé. Mi faceva sentire amata, protetta e compresa anche se eravamo molto diverse. Era molto divertente e di mentalità aperta e, per questo, era molto facile parlare con lei. Non c’era mai imbarazzo. Era sempre pronta a rendermi la giornata più facile cantando la mia canzone del cuore al mattino, cucinando il mio piatto preferito, cucendo il mio vestito più amato, dicendomi che il racconto che avevo appena scritto era fantastico, lasciandomi vedere un film dell’orrore e poi raccontandomi la mia favola preferita più e più volte finché non mi sentiva dormire. La mia infanzia è stata un po’ complicata, ma lei era molto generosa e rendeva la mia vita più sopportabile. Mi sono sentita fortunata ad aver trascorso così tanto tempo con lei. Mi ha insegnato molto su come i bambini amano essere trattati e, nel corso degli anni, l’esperienza della nostra intimità è stata molto stimolante per me e degna di essere ritratta”.

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