“Ammetto di essere ossessionata dalle storie di amicizia, soprattutto tra ragazze”. La storia di Andrea Abreu, quella personale e quella letteraria, si svolge in un “barrio” popolare di Tenerife. Parla di infanzia, della scoperta della sessualità, di corpi, di amicizie che sono banchi di prova per relazioni adulte, di desideri e di paure. La storia di Andrea Abreu s’intitola “Pancia d’asino”, e ilLibraio.it ne ha parlato con l’autrice al suo esordio, che racconta: “Ero una ragazza molto ossessionata dalla religione, pur venendo da una famiglia atea”. Quanto allo stile del suo romanzo: “Per me la letteratura è uno spazio di assoluta libertà nell’esercizio della lingua”

Se vi è già capitato di visitare le Canarie, in particolare la parte nord di Tenerife, forse avrete notato un fenomeno meteorologico particolare che, in queste isole, prende il nome di “pancia d’asino” (“panza de burro”). Si tratta di un accumulo di nuvole molto basse che si forma quando gli alisei, soffiando da nord-est, spingono l’umidità dell’oceano verso le pendici delle montagne.
A Tenerife “la Montagna” è il
Teide, il vulcano che, dall’alto dei suoi 3715 metri, veglia sulla vita degli isolani come uno spettatore presente ma immobile.

È ai piedi del Teide e sotto il suo “mar de nubes” (cioè la “panza de burro” vista dal basso) che si svolge la storia raccontata da Andrea Abreu, nel suo romanzo d’esordio dal titolo fatto di nuvole.
Pancia d’asino (Ponte alle Grazie, traduzione di Ilide Carmignani) è la storia di due bambine di dieci anni, figlie di un “barrio” popolare dell’isola, dove ogni vicino di casa ha un nome e un soprannome e l’educazione dei giovani è spesso delegata alle nonne. 

Shit”, la protagonista senza nome, racconta in prima persona della sua amicizia con Isora, con l’urgenza di un flusso di coscienza che nasce dal suo stomaco e arriva dritto a quello di chi legge. Il rapporto tra “Shit” e Isora diventa spazio di scoperta ma anche di distruzione e rinascita. L’isola con le sue nuvole, invece, non è solo sfondo ma personaggio, che asseconda con le sue trasformazioni quelle della protagonista. 

Pancia d’asino è un libro che corre veloce come la confessione di una bambina, di quelle fatte senza neanche prendere fiato e che, alla fine, lasciano in affanno.

Pancia d’asino corre ma corre con, sulle spalle, alcuni dei pesi più grandi della nostra esistenza e che, come la “panza de burro”, si accumulano spesso sulle pendici dell’infanzia e del passaggio alla vita adulta. 

ilLibraio.it ne ha parlato con l’autrice.

Quanto c’è di lei nelle “Shit” e Isora del romanzo?
“Per quanto riguarda me, mi viene in mente che a questo punto della mia vita sono profondamente grata di abitare il mondo. Ci sono molte persone che amo che sono molto malate, e io voglio solo aggrapparmi alla vita il più possibile, alla vita in generale e alla vita di quelle persone in particolare. Per quanto invece riguarda il libro, la protagonista, che non ha un nome, ha a che fare con me come hanno a che fare con me Isora o Chela. Non è un romanzo autobiografico, ma ha radici reali: parto sempre dalla materia dei fatti per costruire la finzione. Ogni personaggio è una specie di Frankenstein, fatto di frammenti di situazioni che ho vissuto, o che mi sono state raccontate”.

Cosa significa il titolo Panza de burro (Pancia d’asino, in italiano)?
“La ‘pancia d’asino’ (‘panza de burro’) è un fenomeno meteorologico molto comune nelle Isole Canarie e in alcune parti dell’America Latina. Consiste in un accumulo di nuvole basse causate dagli alisei. All’interno del mio romanzo, questo fenomeno non è solo meteorologico, ma è anche e soprattutto mentale: i personaggi del libro sono completamente dominati dalla pigrizia, spinti dalla mancanza di prospettiva, di opportunità; la vita scorre sotto la grigia e pesante presenza delle nuvole, basse sopra le teste di tutti e tutte”.

Andrea Abreu Pancia d'asino

Tenerife, o meglio il “barrio” in cui vive la protagonista, non è solo uno sfondo, ma è metafora e personaggio della storia. Le nuvole che sovrastano ogni cosa, la minaccia del vulcano, i confini del quartiere: cosa significa per lei Tenerife e che luogo è?
“Tenerife è il posto che amo e detesto di più allo stesso tempo: adoro quest’isola così profondamente che ucciderei per lei. E questo, la sensazione che io debba uccidere per difenderla da vari e persistenti pericoli (l’iperturismo, la corruzione politica, la vergogna storica nei confronti della nostra cultura, il neocolonialismo in tutte le sue forme), mi rattrista, mi ha fatta spesso sentire infelice. Poi, però, guardo Tenerife e quella sensazione se ne va. In questo momento sento di voler vivere ogni minuto della mia vita con il Teide dietro di me e l’oceano di fronte. Mi sono sempre sentita attaccata all’isola ma, dopo aver vissuto all’estero, questo attaccamento è diventato molto più forte”.

Teide Tenerife

A proposito di Tenerife, spesso nel libro cita la Vergine della Candelaria. Quale peso ha la fede nella sua vita e quanto il culto della Candelaria ne ha nella vita degli abitanti di Tenerife?
“La Vergine della Candelaria è la patrona delle Isole Canarie. La prima canzone che ho imparato nella mia vita è stata quella della Vergine della Candelaria: ‘La più bella, la più oscura’. È una Vergine molto particolare. Come dice la canzone, è una Vergine dalla pelle scura. Ciò si spiega perché, quando i coloni arrivarono sulle isole, i Guanci (aborigeni delle Canarie) adoravano Chaxiraxi, la dea del cielo. Attraverso un processo di secolarizzazione, Chaxiraxi divenne la Vergine della Candelaria. Oggi, nei riti dedicati alla Vergine della Candelaria, le espressioni aborigene si uniscono a quelle cattoliche. Il suo culto è uno dei pochi eventi che ci ricordano fortemente l’esistenza di un popolo che abitava queste isole prima dei coloni, un popolo che è stato violato e continuamente annullato, ma la cui eredità sopravvive ancora, nei nostri geni, nelle nostre parole, nei nostri riti. Io, in particolare, ero una ragazza molto ossessionata dalla religione, pur venendo da una famiglia atea. È buffo perché, dal momento che i miei amici erano molto praticanti, anch’io volevo essere come loro. Anche se non ho mai creduto del tutto, mi piaceva sentirmi parte di qualcosa. Con il passare del tempo mi sono allontanata dal cattolicesimo e oggi mi considero atea”.

L’intero libro è scritto come una sorta di flusso di coscienza, ma è quello di una bambina di dieci anni. Il testo, infatti, è pieno di refusi e parole straniere scritte così come vengono pronunciate. Qual è il significato di questa scelta?
“In realtà, molte parole prese in prestito da lingue straniere, in spagnolo sono scritte proprio come si pronunciano e sono riconosciute nei dizionari. Avevo semplicemente bisogno di raccontare la storia di due bambine in un quartiere popolare sulle montagne di Tenerife durante l’estate del 2005, e avevo bisogno di usare la variante canaria dello spagnolo, già riconosciuta nel Diccionario Canario de La Lengua (Dizionario della Lingua Canaria). Volevo rappresentare il canario di quella specifica zona di Tenerife di cui molto lessico non è stato raccolto da nessuna parte. Di fronte a questa mancanza di una norma, ho deciso che avrei rappresentato quella sottovariante del canario nel modo più sperimentale e puro possibile. Oltre alla questione del canario, la lingua doveva essere attraversata dalla classe sociale delle due protagoniste, dal tempo e dalle dinamiche stesse dell’amicizia. Non è un esercizio per facilitare la lettura, è un gioco con le possibilità del linguaggio. Quando ho scritto il libro, non pensavo che nemmeno il 5% delle persone che l’hanno letto lo avrebbero sfogliato. Volevo solo scrivere un libro con le viscere, portare il linguaggio fino alla sua ultima possibilità: l’ortografia, il presunto ordine logico delle frasi, quelle cose che nelle mail servono, ma che la letteratura ci fa dimenticare per un po’. Per me la letteratura è uno spazio di assoluta libertà nell’esercizio della lingua”.

Il libro è ricco di piccoli momenti d’infanzia che la protagonista vive nello spazio del suo “barrio”: accompagnarsi a casa a vicenda tra amiche; passare i pomeriggi l’una a casa dell’altra, al fiume o nelle strade del quartiere; conoscere tutti i vicini; vivere in presenza delle nonne. Spesso, quando si diventa grandi, di questi momenti si mantiene poca memoria, ma nel racconto si percepiscono forti e nitidi. Anche lei li ricordava con chiarezza? E che ruolo hanno quei ricordi nella sua vita?
“Ammetto di essere ossessionata dalle storie di amicizia, soprattutto tra ragazze. Sto raccogliendo tutti i libri, le serie, i film e le produzioni culturali in genere che trattano questo argomento. Nella mia infanzia ho avuto amicizie molto intense e possessive, molto simili alle relazioni che hanno alcuni adulti. I grandi problemi che mi preoccupavano da bambina sono rimasti impressi nella mia memoria. Per tutta la vita ho parlato dell’infanzia e l’ho vissuta nella mia testa. Era giusto che scrivessi il mio primo romanzo su questo argomento, per esorcizzarlo, forse, per togliermelo dai piedi e andare avanti. In realtà, sembra che questo non sia accaduto. Dopo il romanzo continuo a pensare agli stessi temi: la sessualità infantile, l’idea di innocenza, le relazioni genitori-figli, i migliori amici, la gelosia, le pretese che si hanno da sé, il perfezionismo. Continuo a leggere i miei autori ‘d’infanzia’, quelli che da bambina tenevo sul comodino: Rita Indiana, María Fernanda Ampuero, Sabina Urraca, Elisa Victoria, Lorrie Moore e Marina Yuszczuk”.

La lettura del sul libro corre velocissima come il ritmo con cui è scritto, nonostante i temi trattati siano grandi e fondamentali. Senza fare spoiler, possiamo dire che il momento di svolta, di crescita vera, è rappresentato da un dolore, da una perdita. In quel momento c’è dentro la storia della fenice, che rinasce dalle proprie ceneri, ma anche la metafora di come, per crescere, sia necessario tagliare i rami secchi. Cos’ha voluto raccontarci con questa storia?
“Mi piace che chi mi legge continui a interrogarsi, e mi piace pensare che non ci sia una risposta corretta. Spero che non ci sia mai una risposta corretta, perché mi rende felice scoprire nuovi significati del mio libro attraverso gli occhi dei lettori”.

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