I dieci racconti che compongono la raccolta “Dolce casa” mettono al centro storie ordinarie di vite qualsiasi, spaccati di umanità della working class irlandese. Un tono divertito fa da contrappunto a una narrazione appassionata e piena di compassione: l’occhio dell’autrice, Wendy Erskine, al suo primo libro, è arguto, taglia fino a far male e accarezza dove il dolore è più penoso – L’approfondimento

“Mia nonna è morta così come è vissuta, davanti alla TV”.

I dieci racconti di Wendy Erskine mettono al centro storie ordinarie di vite qualsiasi, spaccati di umanità della working class irlandese.

Sono ambientati a Belfast, ma la città non vive come protagonista: è uno sfondo senza fascino e personalità, un non luogo dove le persone si muovono tra caffetterie, scuole, market, punti di ritrovo ai margini, dove convergono il bisogno di compagnia e la pubblica assistenza.

Questa Gente di Belfast vive un universo di solitudini e di vuoti, spesso segnati dal passato: ci sono cicatrici di vecchi dolori, ma anche bivi scelti male, che hanno condotto fuori strada.

Dolce casa di Wendy Erskine (Atlantide, traduzione di Federica Bigotti) entra aggressivo a metà percorso, butta nel mezzo, in un momento di per sé insignificante per i protagonisti, e da lì parte a raccontare. È un punto di vista ravvicinato, che scava, trascura il contesto, e porta alla luce quello che c’è sotto, svelando l’agrodolce di persone che dalla vita non si aspettano granché.

Dolce casa, Wendy Erskine

Ci sono tante assenze nelle storie, mariti mancati, madri carenti, figli persi o perduti, per sempre: e sono assenze contrassegnate da una solitudine soffocante, che diventa noia di vivere, rapporto familiare fuori asse, oppressione. Il ricordo è velato di squallore, quello di un funerale troppo “indicibilmente silenzioso e dimesso” per una bambina di sei anni, che meritava piume e colore, ma il dolore ha appiattito anche la sua ultima festa.

Ci sono ritorni a casa pieni di recriminazione, che violano la quotidianità a fatica ricostruita, o giornate di silenzi che diventano un’ossessione per gli altri, uno sguardo fuori come una mano tesa in cerca di umanità, anche per quelle vicine così diverse, coi loro veli, ma con le luci alle finestre, che sembrano chiamare l’anziana Jean a entrare nel loro mondo, una coperta in testa per appartenere a una famiglia, di nuovo.

“Sì sono ancora qui. Detto con un sorriso, un sorriso e una scrollata di spalle, perché non è poi così male”.

Le donne di Dolce casa affrontano la violenza subdola del racket tra l’indifferenza generale, sono femmine aggrappate al maschio di turno, un liberatore in canotta e birra in mano, sono giovani Lolite e insegnanti ingrigite, con i loro mezzi tacchi e un cane a fare compagnia. Afferrano un ricordo come un salvagente in un naufragio e lo tengono stretto, inzuppate di pioggia, nell’illusione di rivivere ancora qualcosa che non sia la loro vita di sempre. Sono mogli che hanno accettato tutto, adattandosi a una quotidianità indaffarata, e intrisa di disincanto.

“Quando Emma aveva detto a Bucky di essere incinta, quando aveva agitato quel bastoncino in aria, lui non aveva fatto storie. Era soltanto una di quelle cose che capitano. Lei non era il massimo, ma non era neanche il minimo. Avevano preso un posto insieme e non era male, anche se non si stava bene come a casa di sua madre. Lì le cose venivano cucinate meglio e lavate meglio”.

La spaccatura tra presente e passato fa diventare centrale in alcune storie il tema dell’espiazione, del ruolo terapico del lavoro e dell’assistenza degli altri. Wendy Erskine penetra nel cuore, svela le storie di oppressi e falliti che cercano una speranza o almeno un equilibrio, un ruolo che diventi un nuovo punto di appoggio.

C’è Andy che tiene in piedi un’attività insieme a un’organizzazione di aiuto, e accoglie ragazzi con disturbi, faticando e mentendo per loro, tra le rigidità dei moduli e il perbenismo della società. C’è Barry la cui vita è cambiata in un parchetto giochi, a parlare con una bambina, marchiato suo malgrado. Non c’era niente di male, tanti anni fa ormai “e così tanto nel mezzo”. Ma quel momento ha segnato il suo destino, paralizzandolo in un futuro senza uscita.

Lo sguardo su queste esistenze non è privo di ironia: ed Erskine gioca col registro umoristico quando ricostruisce la biografia di un musicista immaginario descrivendola in un elenco di aneddoti. È un racconto diverso dagli altri, 77 punti, una vita ridotta a poca roba, polverizzata in cinguettii per il popolo del web, trasformata in una celebrazione beffarda di piccole cose.

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Questo tono divertito è una nota che ogni tanto appare a fare da contrappunto a una narrazione appassionata e piena di compassione: l’occhio di Wendy Erskine, giovane scrittrice al suo primo libro, è arguto, taglia fino a far male e accarezza dove il dolore è più penoso.

Attraverso l’elegia dei dettagli insignificanti della vita, l’autrice apre le porte delle case belfastiane, e con loro i cuori serrati dalla fatica della sopravvivenza.

Le sue sono parole piene di realismo e di sentimento, che nello squallore impietoso delle Normal People, di Belfast ma universalmente di ogni luogo, trovano frammenti di rassicurante luce.

“Passarono in fondo alla via di Barry e a un tratto gli sembrò bellissima. Il sole si nascondeva tra gli alberi e c’era un ragazzo che lavava la sua macchina, grumi di schiuma che luccicavano sull’asfalto. Barry pensò a come non si fosse accorto prima di amare tanto quella strada. Proprio quella”.

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