“Anima – Una pastorale selvaggia” (di cui pubblichiamo un estratto) chiude la tetralogia balcanica della premiata poetessa e scrittrice Kapka Kassabova, apprezzata autrice di nature writing e reportage narrativi. La scrittrice racconta (con empatia) l’attività epica della transumanza, e lo stile di vita dei pastori, insidiato dal capitalismo e dalla modernità, soffermandosi sul legame quasi simbiotico tra uomini e animali…

In Anima – Una pastorale selvaggia (in uscita per Crocetti nella traduzione di Anna Lovisolo), finale della sua tetralogia balcanica, la premiata poetessa e scrittrice Kapka Kassabova (tradotta in molti paesi e apprezzata autrice di nature writing e reportage narrativi) propone un ritratto della vita pastorale, e indaga gli sforzi eroici per sostenere le razze più antiche sopravvissute dei nostri animali domestici. Kassabova in questo libro mostra l’attività epica e orchestrata della transumanza.

 Anima. Una pastorale selvaggia di Kapka Kassabova

L’autrice sarà al Festivaletteratura di Mantova sabato 7 settembre alle 19, alla Basilica Palatina di Santa Barbara, in dialogo con Michael Ignatieff su L’Europa, al confine (modera Luca Misculin), e domenica 8 settembre, alle 18, sempre alla Basilica Palatina di Santa Barbara, in dialogo su Psicogeografia balcanica con Elvira Mujčić

Anima è dunque il quarto e ultimo volume che la scrittrice di origini bulgare (nata nel 1973 a Sofia) dedica alle regioni balcaniche meridionali, quelle comprese in particolare tra Macedonia e Bulgaria. Dopo avere riflettuto sul tema dei confini (in Confine), avere raccontato il versante macedone della sua famiglia (ne Il lago) ed esplorato la tradizione erboristica bulgara che ancora sopravvive nella valle formata dal fiume Mesta e racchiusa dal massiccio dei Rodopi con Elisir, l’autrice si concentra su un territorio più raccolto, la catena montuosa del Pirin, e su un tema in particolare, ovvero l’antico stile di vita dei pastori che lo abitano, insidiati dal capitalismo e dalla modernità.

Kassabova, che si è trasferita in Nuova Zelanda durante l’adolescenza e che dal 2005 vive nelle Highlands scozzesi, vuole conoscere, approfondire, cercare le radici e le storie dei luoghi e di chi ci vive, perciò condivide per un certo periodo l’esistenza dei pastori e delle greggi e ne segue la transumanza, per poi descrivere l’asprezza, le difficoltà, l’isolamento, il legame quasi simbiotico tra gli uomini e i loro animali.

Kapka Kassabova nella foto di Tony Davidson

Kapka Kassabova nella foto di Tony Davidson

Da tutto questo nasce un racconto empatico, che mette al centro la relazione tra l’uomo e la natura, la fondamentale salvaguardia di quest’ultima e, soprattutto, l’importanza di tenere vive, non soltanto attraverso il ricordo, le antiche tradizioni popolari e culturali.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

(…) Era l’agosto più caldo che ricordassi. Avevo affittato un appartamento in un piccolo centro termale lungo il fiume Struma. Ai lati della cittadina c’erano due montagne, e gli incendi stavano devastando le foreste di entrambe. Sul mio balcone pioveva cenere. La gente stava all’aperto e guardava il cielo fosco. Mi chiedevo se sarebbero rimasti o andati via. Nell’incertezza, avevo fatto anch’io i bagagli.

il lago Kapka Kassabova

In un certo senso me ne stavo già andando. Avevo trascorso alcuni periodi di due diverse stagioni a girovagare per il Pirin orientale con un eccentrico personaggio del posto di nome Emin, sulle tracce dei suoi venti cavalli selvaggi. Loro percorrevano grandi distanze e noi avevamo trascorso intere giornate ad attraversare faggete autunnali, torrenti che non vedevano mai il sole, territori dove la neve arrivava ai fianchi, correndo il rischio di farci male o finire assiderati. Emin non si preoccupava per la propria vita, solo leggermente di più per la mia. Per i cavalli invece avrebbe dato l’anima. Non portava con sé nient’altro che un’accetta, neppure i calzini sotto gli stivali di gomma. Intrappolata in una morsa di fascino e affetto, ero rimasta per troppo tempo nel suo territorio inospitale. Ma era un bel territorio. I cavalli erano di razza karakachan: snelli, agili, muscolosi, bruni e neri, fatti per girovagare tra le montagne. D’inverno erano in grado di sopravvivere cibandosi di aghi di pino. Emin avrebbe potuto ricevere abbastanza sussidi per viverci, ma non aveva la pazienza né la testa per stare dietro alle scartoffie, e così teneva i cavalli perché ci era legato e si spaccava la schiena in lavori umili. Non sopportava l’idea di venderne neppure uno, sapeva che sarebbero finiti in salsicce oppure a fare le bestie da soma per gli ultimi taglialegna nei boschi. Anche lui era stato un taglialegna, della varietà preindustriale.

Per venticinque anni aveva trasportato tronchi insieme al padre a dorso di cavallo sugli altopiani del Pirin, del Rila e dei Rodopi, attraversando territori tra i più inaccessibili d’Europa. Poi il padre era morto e i cavalli si erano inselvatichiti. Girovagavano sopra il suo paese in quota durante l’inverno e nella cintura prealpina d’estate. Lui ci dormiva insieme, gli portava il pane e il sale, percorreva un imprecisato numero di chilometri per loro, li amava e li odiava perché lo avevano reso un prigioniero della montagna. Io mi ero fatta un po’ di quei chilometri con lui, amando e odiando con lui. Ma l’incanto si era velocemente trasformato in prostrazione. Il suo umore era come il tempo in montagna, elettrico ed estremo. Lui non staccava mai. Era un disadattato, programmato per vivere nei territori selvaggi, in grado di relazionarsi soltanto con la sua famiglia equina.

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Emin aveva la mia età ed era l’ultimo dei selvaggi. Il suo isolamento era opprimente, una solitudine da età della pietra nell’era digitale. Dopo di lui non ci sarebbero più stati cavalli, nessuna storia, nessun luogo che assomigliava a un volto, soltanto turisti in cerca dell’ultimo uomo e del suo cavallo. Quella consapevolezza era per me intollerabile. Volevo dunque scrivere delle nostre camminate, dei suoi ricordi e del modo in cui parlava e vedeva le cose, anche quando ormai avevo capito che era piuttosto rischioso risiedere in quelle oscillazioni atmosferiche. Eppure ero ritornata. Ed ero lì con lui, in quell’estate torrida.

“Se te ne vai adesso mi impicco, e dovrai banchettare alla mia veglia funebre,” mi aveva detto alla fine, standosene sdraiato sul pavimento nudo della camera di una locanda, senza lasciarmi dormire per due notti.

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“Perché faccio la vita di un cane,” aveva aggiunto.

Avevo trasportato legname nel fango insieme a lui, tronchi bagnati di faggio che pesavano quanto il ferro, e alla fine della giornata gli avevano dato venti euro. Avevo marciato con lui nella neve alta e al ritorno non sentivo più i piedi, senza avere trovato i cavalli, con la paura che fossero morti sotto la neve. Ero entrata nel suo mondo ma non riuscivo a restarci, era troppo animistico. Lui nel mio non riusciva a entrarci, era troppo umanistico.

In quegli ultimi giorni insieme la comunicazione tra noi si era interrotta, ci limitavamo a camminare. Come sempre, del resto. Facemmo un’escursione con un vecchio cowboy di nome Kosta, risalimmo le montagne dai terrazzamenti naturali, oltre le case di sasso in rovina e gli ovili di pastori scomparsi, e raggiungemmo un altopiano chiamato la Scuderia. Kosta possedeva diverse centinaia di mucche che pascolavano liberamente, nonché il più grande branco di cavalli karakachan del Pirin, e ci vollero quattro ore di cammino per vederli nel luogo in cui pascolavano in estate, un luogo in cui non c’era mai stata una stalla costruita dall’uomo, soltanto quella all’aperto rappresentata dalle montagne.

Dopo quella gita me ne andai e basta. In genere ci salutavamo sempre su strade in quota. Io mi rimettevo al volante, Emin si arrampicava tra le rocce, entrambi in lacrime, come in un vecchio western. Quell’ultimo addio invece fu gelido e furioso.

“Non mi hai fatto dormire per due notti. Si chiama tortura. Lo facevano alla gente nelle dittature. Sono sempre stata tua amica, tu invece non lo sei. Scendi dalla macchina.”

Lui non lo fece, perciò lo spinsi fuori. Non protestò. Fisicamente mite, dava di matto a parole, questo era il suo modo di fare. Un bambino cresciuto che faceva i capricci. Can che abbaia non morde, come si suol dire, ma non volevo mettere ulteriormente alla prova quel vecchio adagio.

(continua in libreria…)

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