“E ho smesso di chiamarti papà” è il tremendo e lucido memoir di Caroline Darian, figlia di Gisèle e Dominique Pelicot: per quasi dieci anni il padre ha abusato a insaputa di tutti della madre (in compagnia di altre decine di uomini) costringendola a una pericolosa e manipolatoria sottomissione chimica e, una volta emerso l’orrore delle sue azioni, la vita della famiglia è cambiata per sempre – La storia in presa diretta di una donna che ha deciso di non sprofondare nella vergogna e di impegnarsi per ottenere giustizia, assistendo sempre più vittime di violenza domestica
Somiglio molto a mia madre, lo diceva spesso anche lui. Ora però so anche che per la madre dei suoi figli non ha mai avuto il minimo rispetto. “È proprio figlia di sua madre”, dice in questi commenti, riferendosi a me; non dice mai “mia” figlia o “nostra” figlia. È una dissociazione vera e propria: se io non sono sua figlia e lui non è mio padre, allora posso diventare anch’io uno dei suoi oggetti sessuali.
Si intitola E ho smesso di chiamarti papà (UTET, traduzione di Valentina Maini) ed è il tremendo memoir di Caroline Darian, portato in libreria per ricostruire il caso Gisèle Pelicot dal punto di vista di una donna che è stata, al tempo stesso, la figlia di una vittima e la figlia di un aguzzino rimasti al centro dell’opinione pubblica francese (e internazionale) negli ultimi quattro anni.
Era infatti il 2 novembre 2020, un simbolico Giorno dei Morti, quando Caroline Darian (all’anagrafe Caroline Peyronnet, che ha firmato il volume con un cognome d’invenzione partendo dal nome dei fratelli David e Florian) veniva a sapere che il padre aveva costretto per quasi dieci anni la moglie Gisèle a una sottomissione chimica basata su un accurato cocktail di farmaci.
L’aveva così stordita, e aveva abusato di lei in compagnia di altre decine di uomini adescati su un sito di incontri, mettendo in pericolo la sua salute psicofisica e tagliandola sempre più fuori dal mondo, mentre adduceva i vuoti di memoria e il sonno profondo della moglie al suo eccessivo spirito di sacrificio per i familiari.
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Una vicenda angosciante e di estrema gravità che, oltre a portare a un logorante processo di quattro anni, in cui tutte le donne della famiglia si sono costituite parte civile, insieme ai figli maschi di Dominique Pelicot, ha aiutato a far luce su un fenomeno di violenza domestica diffuso in maniera sempre più capillare, benché ancora molto sotterranea.
Nell’agosto 2024, quando non si era ancora concluso il processo a porte aperte che, il 19 dicembre scorso, avrebbe poi condannato tutti gli imputati e inflitto a Dominique Pelicot vent’anni di reclusione, Caroline Darian ha deciso di dare alle stampe i diari scritti nel corso del suo calvario giudiziario, familiare e personale.
L’obiettivo? Passare da una battaglia individuale a una denuncia pubblica, suggellata peraltro dalla fondazione dell’associazione #MendorsPas: Stop à la Soumission chimique (it. #NonMiAddormentare: Fermiamo la sottomissione chimica), che dà sostegno alle vittime di questa sconcertante pratica e porta alla luce le loro storie.
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Voglio trascendere questa terribile eredità paterna, trasformare tutto il fango in materia nobile.
Nel cominciare a leggere E ho smesso di chiamarti papà, è allora inevitabile provare un senso di inquietudine e, a tratti, di riluttanza.
Ci si chiede quali vasi di Pandora l’autrice stia per scoperchiare, quali nervi scoperti stia per toccare, quanto ci richiamerà alla mente i micro e i macro eventi che, presto o tardi, hanno fatto scivolare anche noi fra i minacciosi artigli del patriarcato.
Ma basta superare la pregnante introduzione di Darian, costellata di dati statistici che già preparano al peggio, per scoprire che il testo risulta di spessore (cronachistico, femminista e letterario) per ragioni diverse da quelle a cui ci stavamo preparando.

Caroline Darian (foto di Olivier Roller)
A essere notevole è, in primis, l’abilità di Darian di non perdere mai la misura e la lucidità.
Il taglio dei suoi appunti è asciutto e diretto, e si lascia andare solo di rado a dei fugaci ricordi (segnalati da un efficacissimo corsivo) dei momenti felici trascorsi con il padre, che – quasi fossero dei pensieri intrusivi – sospendono per qualche riga la linearità della sua via crucis.
(Al largo della Corsica, a bordo di un piccolo motoscafo, il mare si agita all’improvviso. Tu mi dici di stare calma, che tutto andrà bene; in un istante ogni mia paura svanisce e afferro il timone. Navigavamo su acque turbolente, ma lo facevamo insieme.)
Al tempo stesso, Darian sa impugnare la penna come se fosse intorno al fuoco insieme a noi, sa tessere ad alta voce le fila di un ancestrale racconto dell’orrore come il più convincente dei pifferai magici, mettendoci a parte di una distopia autobiografica troppo raccapricciante per sembrarci inizialmente credibile.
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Stacco dalle pareti i disegni, le tele, tutto quello che mio padre ha dipinto da quando sono arrivati a Mazan. Riservo un trattamento speciale a quello della donna nuda. Lo prendo, esco nel patio e lo fracasso contro lo schienale di una delle sedie fuori.
Si spacca in due, e una delle metà si capovolge. Sul retro, una scritta a matita nera con la data – agosto 2016 – e il titolo: “Il dominio”.
Quella notte non chiudo occhio.
Nell’arco di poche pagine, però, ci rendiamo conto che sulla sua famiglia si è davvero abbattuto il peggiore degli incubi, che macchia di sporco e di sbagliato corridoi, ritratti di famiglia, lenzuola: l’unica soluzione è smantellare tutto, vendere o regalare, buttare e ricominciare, illudendosi di scacciare così sia lo spaesamento sia lo spettro delle malattie veneree nelle quali potrebbe essere incorsa, senza volerlo, Gisèle Pelicot.
Mentre capiamo con amarezza che rinnegare il passato non è sufficiente a scrollarsi di dosso la furia e la confusione, e che per fortuna la vittima principale di Dominique Pelicot non è affetta da un male incurabile, notiamo inoltre che E ho smesso di chiamarti papà non sta indulgendo a nessun cliché sensazionalista.
Gisèle Pelicot non incarna la guerriera combattiva e fiera tanto apprezzata dallo sciacallaggio mediatico, che si allea con la figlia e si difende a testa alta fin dal primo istante, ma una donna fragile che porta ancora i vestiti stirati e profumati al marito dietro le sbarre, pur meritando ugualmente giustizia e ricevendo l’empatia di chi la ama (incluse le due nuore immortalate a loro volta di nascosto, e usate come strumento di piacere sessuale da parte di Dominique Pelicot e degli utenti con cui era connesso).
Dominique Pelicot, dal canto suo, non è un mostro distaccato e feroce, ma un uomo affettuoso e spiritoso, amante del barbecue, della buona musica e del Tour de France.
Nonostante i suoi zoppicanti magheggi lavorativi e la sua pessima gestione del denaro, che ha portato la famiglia alla bancarotta, ha sempre incoraggiato i figli a studiare e a coltivare le proprie passioni, non mancava mai di elogiare la moglie Gisèle e commentava ogni partita di calcio con il nipotino Tom, pur meritando di pagare per le innumerevoli oscenità, bugie e denigrazioni di cui troppo a lungo è stato responsabile.
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Né tantomeno Caroline Darian è una donna priva di zone d’ombra e tendente all’autocommiserazione, che vuole creare ad arte un siparietto mélo pronto a confermare le opinioni esterne sul suo conto.
Al contrario: Caroline Darian cova rancore. E a buon diritto. Per poco non alza le mani su sua madre, quando capisce che il controllo esercitato dal padre su di lei dopo l’arresto è rimasto tale da spingerla più alla negazione che alla ribellione, più all’isolamento che alla condivisione, più all’autoprotezione che a una brusca reazione.
Viene ricoverata in un ospedale psichiatrico dopo la tragica notizia che farà da spartiacque nella sua vita, e rigetta gli psicofarmaci prescritti dalla clinica per paura che le causino assuefazione, che le facciano perdere il controllo e che qualcuno intanto abusi anche di lei, pur rimuginando spesso sull’apparente bontà d’animo di suo padre.
Ma Darian è anche una delle poche persone della famiglia a intuire fin da subito la portata delle azioni di cui Dominique Pelicot viene casualmente riconosciuto colpevole (ha ripreso tre donne al supermercato sotto la gonna, e il suo prezioso archivio digitale è finito senza preavviso nelle mani degli inquirenti), e si rifiuta di provare vergogna al posto del suo carnefice, che ha coinvolto nel suo operato troppe vittime collaterali spesso dimenticate.
Indovina e smaschera la ragnatela di manipolazioni a cui lei e i suoi cari erano stati esposti per decenni, entra in possesso delle lettere con cui il padre sta cercando illegalmente e subdolamente di separare la famiglia dall’interno mentre è detenuto, ascolta ogni vigliacca ed evasiva parola delle sue deposizioni.
Parla a cuore aperto con il figlioletto Tom, accompagnandolo da uno psicologo, si riavvicina alla madre e al fratello Florian nonostante le loro divergenze e impara a convivere con l’allucinante rivelazione del fatto che il padre abbia drogato e fotografato in pose volgarmente erotiche pure lei, collaborando in parallelo con la dottoressa Hatem-Gantzer per ampliare insieme una rete di case di accoglienza, dedicate alle vittime di violenza fisica e sessuale.
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Un giorno, forse, ti parlerò per l’ultima volta.
Ti guarderò dritto negli occhi e ti dirò quanto avrebbero potuto essere diverse le nostre vite.
Suo malgrado, insomma, Darian è una pioniera, che – come sottolinea a più riprese in E ho smesso di chiamarti papà – punta a fare ordine dentro di sé e nella sua quotidianità pur non sapendo ancora tutta la verità, ma che non trascura la dimensione sociale di quanto ha dovuto affrontare senza poter contare su un precedente della stessa portata.
Questo spiega come mai E ho smesso di chiamarti papà non assomigli a niente che abbiamo già conosciuto, a nessun episodio che ci abbia coinvolto in maniera più o meno diretta nel nostro rapporto con il maschilismo, obbligandoci a metterci nei suoi panni e ad allontanarci per un po’ da qualunque percorso stessimo già intraprendendo, per incrociare quello inedito e spiazzante che lei ha avuto l’onestà intellettuale di rendere pubblico.
Una scelta che è dunque più un regalo che un’operazione editoriale, un dono di sé e al tempo stesso di un lessico antipatriarcale, in grado di fornirci nuovi strumenti con cui occuparci dei numerosi meccanismi ancora da disinnescare dentro e fuori di noi.
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Ma che, soprattutto, si fa testimonianza di quanto abbia senso dare voce alla sfera personale e alla scrittura terapeutica quando la sua eco intende essere politica.
Nessun rischio, pertanto, che E ho smesso di chiamarti papà trascini in una spirale di voyeurismo letterario.
Leggerlo non significa lasciarsi andare alla curiosità morbosa di saperne di più su che cosa sia successo alla famiglia Pelicot, ma addentrarsi con coraggio e discrezione nell’abisso del come abbia risuonato tutto ciò in un nucleo strappato d’un tratto alle proprie abitudini, memorie e convinzioni, e che ha dovuto ripensarsi, ritrovarsi e risollevarsi da zero.
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Un’opera trascinante e al tempo stesso quasi intollerabile. Carica di astio e compassione, di struggimento e sensi di colpa, di attriti e sgomento, nonché capace di farci accantonare le aspettative o le domande soggettive per cui avevamo preso il testo fra le mani.
Il suo potere, infatti, è piuttosto quello di coinvolgerci in una serie di questioni sempre meno individuali, ma proprio per questo sempre più pervasive, sempre più urgenti, che partono da una villetta della Vaucluse per poi raggiungere tutte e tutti noi, che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case.
“Considerate se questo è un uomo“, sembra di sentir tuonare nella nostra direzione, capovolgendo il senso di un celebre verso di Primo Levi (1919-1987), per riconoscere Dominique Pelicot per quello che è stato.
Ma, soprattutto, considerate se questa è una donna, “senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno”…
A mia madre non è stata offerta nessuna forma di sussidio o assistenza sociale, né nel momento di massima crisi né tantomeno nei mesi successivi, durante i quali ha potuto contare unicamente sulle proprie forze e sul nostro supporto. E mi sono chiesta: ma come fanno le donne senza famiglia e senza soldi?

Letture originali da proporre in classe, approfondimenti, news e percorsi ragionati rivolti ad adolescenti.
