“Effetto serra effetto guerra” indaga le cause delle migrazioni, dei conflitti e del terrorismo per ricondurli a una stessa origine comune: il riscaldamento globale… – Su ilLibraio.it un capitolo del saggio di Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini

In un momento storico in cui le migrazioni diventano esodi di interi popoli e i paesi del terzo mondo si svuotano alla volta dell’Occidente, diventa tanto difficile, quanto necessario, risalire alle cause che hanno innescato il meccanismo.

Il saggio di Grammenos Mastrojeni, analista diplomatico, Antonello Pasini, fisico del clima, Effetto serra effetto guerra (Chiarelettere), mira a indagare proprio questo sistema, a raccontare l’origine delle migrazioni, delle guerre, del terrorismo, cercando di ricondurre tutti i fattori a un minimo comune denominatore: il cambiamento climatico.

Mastrojeni è coordinatore per l’ambiente della Cooperazione allo sviluppo, insegna Ambiente e Geostrategia in diversi atenei e da una ventina d’anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici del pianeta. Pasini è docente di Fisica del clima a Roma Tre e Sostenibilità ambientale e aspetti scientifici all’Università Gregoriana di Roma, discipline che ha trattato in diverse pubblicazioni specialistiche. È vicepresidente della Società italiana e ha recentemente vinto il premio nazionale di divulgazione scientifica con il blog ‘Il Kyoto fisso‘ per la rivista Le Scienze.

Insieme, gli autori tentano di delineare la concatenazione di eventi che legano i cambiamenti climatici all’aumento di povertà di intere popolazioni, alle migrazioni, finanche al terrorismo e al fanatismo, ricostruendo un quadro che fa di tante problematiche del mondo contemporaneo un’unica grande difficoltà da fronteggiare.

Effetto serra effetto guerra vuole riportare l’attenzione sulle vere cause di un disastro ambientale e umano che può essere risolto soltanto tramite la consapevolezza e la coscienza di tutti i fattori che lo compongono.

Effetto serra effetto guerra

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un capitolo del libro:

Il riscaldamento avanza – ed erode i servizi ecosistemici – anche nei paesi in via di sviluppo; anzi, in molti casi più che altrove, per la loro collocazione nella fascia tropicale o arida. Tale erosione può essere compensata dalle economie più ricche, comprando sul mercato internazionale quello che il clima alterato ha impedito di produrre a casa propria, e con il sostegno pubblico alle famiglie colpite che così
non sono spinte a comportamenti rischiosi per la stabilità sociale. Invece, nelle regioni povere, un mancato raccolto o una foresta che «avvizzisce», non sono solo una sfida economica ma un drammatico problema di diritti umani, laddove fanno la differenza fra tenere o meno una bambina sui banchi di scuola. Il degrado della natura mina così alla base la coesione e la stabilità delle comunità rurali meno
solide e ciò si riverbera sulle aree urbane: crea insicurezza, conflittualità e spinte ai movimenti forzati di popolazioni.

Tali dinamiche mettono a repentaglio il futuro di tutti, anche se ora colpiscono maggiormente i più poveri. Presso di loro rischia di mettersi in moto un altro ciclo cumulativo che si affianca ai feedback positivi di cui abbiamo parlato e che si creano nel sistema climatico aggravando il riscaldamento. Ma è un ciclo diverso, forse più temibile, perché opera fra ambiente e umanità, ne abbiamo accennato in
merito al problema del cibo per i poveri:

effetto serra effetto guerra schema estratto

Per un futuro troppo prossimo – entro la fine di questo secolo, come si è visto – gli studi prefigurano il cambiamento climatico in accelerazione più o meno brutale: gli scenari variano da un riscaldamento contenuto entro 1,5°C – con gravi problemi, però ancora gestibili – fino a un incremento oltre i 4°. La differenza fra questi scenari non dipende dalle diversità fra i vari tipi di modelli e metodi applicati dagli
scienziati, bensì da un’incognita fondamentale: come si comporterà l’umanità? Lo scenario biofisico dei 4° e oltre – che potenzialmente potrebbe indurre estinzioni di massa, aumenti più rapidi del livello degli oceani, disastrose alternanze di siccità e alluvioni sulle aree continentali, gravissimi problemi alle attività agricole nelle zone sub-tropicali – è considerato raggiungibile in un certo scenario socio-economico umano definito business as usual: in pratica, ci arriviamo se noi umani continuiamo ad agire come sempre.

In realtà, lo scenario di un’umanità che persevera imperterrita a fare quello che ha sempre fatto – il temuto business as usual – potrebbe rivelarsi un’ipotesi del tutto ottimista: un ciclo cumulativo di condotte irresponsabili rischia di mettersi in moto nella sfera umana in parallelo al dissesto crescente nella biosfera, con le due dinamiche distruttive che si alimentano a vicenda. Infatti, col progredire dei cambiamenti climatici si prospettano rapidi spostamenti delle risorse disponibili, comprese quelle più basilari come l’acqua, i terreni coltivabili e abitabili, il cibo, soprattutto a danno di coloro che già sono più poveri. Si potrebbero aprire, allora, delle competizioni e degli accaparramenti, delle sacche di instabilità e povertà violenta, ondate migratorie di portata inedita. In queste condizioni, l’unica risposta
umana sensata per contenere il riscaldamento – ovvero quella multinazionale, cooperativa e concertata – diverrebbe sempre più difficile da attuare e una conflittualità endemica si affaccerebbe sulla scena. Uno scenario in cui il conflitto imperversa sullo sfondo di un clima molto diverso da quello a cui siamo abituati, in cui l’umanità si combatte invece di impegnarsi unita per ridurre le emissioni, non ha ancora una quantificazione in gradi centigradi, ma è chiaro che occorre assolutamente evitarlo e che dobbiamo agire subito. Dove agire? Non è solo una questione etica: un impegno prioritario in soccorso dei poveri è necessario ed è nell’interesse di tutti: la natura esige giustizia. Occorre infatti intervenire anzitutto lì dove la soglia di collasso socio-economico è più bassa, poiché da lì rischia di partire il ciclo globale di instabilità paralizzante, mentre lì rimarrebbe trascurato l’obiettivo di proteggere la natura e impegnarsi per il clima. È nelle regioni più povere – dove la società non ha i mezzi per soccorrere i più colpiti – che prende avvio il ciclo dell’instabilità e della rinuncia a difendere l’ambiente, perché chi ha l’urgenza dell’oggi non può curarsi del domani. È però impossibile vincere la sfida dei cambiamenti climatici e di un più generale recupero della natura senza la partecipazione delle comunità più vulnerabili: se le economie più solide incidono attualmente di più sulle variabili produttive ed energetiche dell’equazione, i poveri controllano invece gli usi di estensioni vastissime, che rappresentano anch’esse una parte essenziale della soluzione: come si usa la terra, lo vedremo meglio, fa un’enorme differenza per il clima. Non ci possiamo quindi permettere di assistere alla rinuncia dei paesi poveri di contribuire alla sfida generale del clima – o della biodiversità, o altro – perché intrappolati da urgenze più immediate.

(Continua in libreria…)

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