“Come essere stoici” di Massimo Pigliucci è una guida pratica per affrontare e vivere alla luce dello stoicismo i problemi pratici della vita quotidiana che ci assillano, ci pongono di fronte a vari dilemmi etici e ostacolano il raggiungimento di quella felicità e tranquillità d’animo che è la vera caratteristica del saggio… – L’approfondimento

Se si apre un qualsiasi vocabolario della lingua italiana sotto l’aggettivo “stoico” si trova questa definizione: “chi agisce con fermezza e forza d’animo di fronte alle avversità, alle difficoltà, al dolore fisico e morale”. Nel linguaggio corrente si utilizza la parola “stoico” per indicare un comportamento ammirevole per virtù, saggezza e coraggio. Per gli stoici, d’altra parte, lo scopo del vivere è il raggiungimento della felicità. L’etica deve determinare in che cosa esattamente consista la felicità e quali siano i mezzi appropriati per raggiungerla. Per gli stoici, la soluzione di questo problema costituisce non lo scopo di un settore della filosofia ma lo scopo unico di tutte quante le parti della filosofia: la logica, la fisica e l’etica. Alla filosofia si chiede, insomma, l’arte di vivere. Non c’è dubbio che i massimi esponenti dello stoicismo, da Epitteto a Marco Aurelio, da Seneca a Musonio Rufo, avrebbero apprezzato il libro di Massimo Pigliucci, Come essere stoici (Garzanti), appena uscito per Garzanti, non solo perché parla della loro dottrina ma perché è una guida pratica per affrontare e vivere alla luce dello stoicismo i problemi pratici della vita quotidiana che ci assillano, ci pongono di fronte a vari dilemmi etici e ostacolano il raggiungimento di quella felicità e tranquillità d’animo che è la vera caratteristica del saggio.

Pigliucci insegna filosofia presso la City University di New York e cura due blog di successo: Plato’s Footnote e How To Be a Stoic. Per questo suo viaggio, nato da un articolo del New York Times che ha registrato un record di condivisioni sui social network, ha scelto come guida Epitteto, ex schiavo, il cui padrone, Epafrodito, che rivestì la carica di segretario imperiale di Nerone a Roma, gli riservò un buon trattamento e gli permise di seguire le lezioni di Musonio Rufo, uno dei più rinomati filosofi stoici attivi a Roma. Alla morte di Nerone, nel 68 d.C., Epitteto fu affrancato da Epafrodito, pratica piuttosto comune per gli schiavi particolarmente intelligenti e istruiti. Epitteto lo era e Pigliucci dialoga con lui, si lascia provocare dalle sue Diatribe e affronta i temi più disparati: come gestire i legami familiari, come governare le passioni a cominciare dalla rabbia, come convivere con eventuali disabilità fisiche o mentali, come sopravvivere a una tragedia personale e così via. La storia di Epitteto, in fondo, è emblematica: da schiavo studia, diventa un uomo libero e fonda una propria scuola (a Nicopoli, nella Grecia nord-occidentale). Lo stoicismo, mettendo in crisi gli antichi miti della nobiltà del sangue o della superiorità della razza, proclama che la natura peculiare dell’uomo è la ragione, il logos, e l’uomo deve vivere attuando proprio la ragione. Quindi, l’uomo – indipendentemente dalla sua condizione personale, sia esso potente o umile o schiavo – viene proclamato libero e capace di giungere alla virtù: vero libero è il saggio, vero schiavo è lo stolto. Non c’è quindi da meravigliarsi se nello stoicismo ritroviamo fianco a fianco un imperatore, Marco Aurelio, e un ex schiavo affrancato, Epitteto.

Ben vivere, cioè soffrire senza avvilirsi è un problema antico quanto l’uomo. Pigliucci in una disamina appassionante e serrata, dove non mancano neppure le critiche, proclama che lo stoicismo è una ricetta ancora utile per l’uomo postmoderno alle prese con questo problema. Nessuna illusione, però: essere stoici oggi non è come aderire a una di quelle dottrine New Age che uniscono un po’ di tutto: yoga e yogurt, fitness e meditazione, saggezza e massaggi. Lo stoicismo, scrive l’autore, “richiede impegno, poiché stabilisce che l’unica cosa degna di essere perseguita e coltivata sia la virtù morale; considera invece ‘indifferenti preferibili’ la salute, la conoscenza e la ricchezza (anche se gli stoici non predicavano certo uno stile di vita ascetico, anzi: molti tra loro avrebbero dimostrato di sapersi godere le cose belle della vita)”.

Pigliucci si dice stoico non tanto per l’apatia che cinge chi segue questa dottrina e che, soprattutto nell’Antica Stoa (dalla fine del IV al III secolo a.C., maestri Zenone, Cleante e Crisippo) appariva raggelante e, al limite, persino inumana: poiché pietà, compassione, misericordia sono passioni, lo stoico le estirperà. No, Pigliucci avverte che “uno degli equivoci più diffusi è infatti quello di ritenere che, per essere stoici, occorra assumere esattamente un atteggiamento di questo tipo. In realtà, lo scopo dello stoicismo non è reprimere o celare le emozioni ma riconoscerne l’esistenza, riflettendo su ciò che le ha provocate, e canalizzarle, usandole a proprio vantaggio”.

Attraverso esempi concreti della sua vita (andare o no a un ristorante pluristellato? Come reagire di fronte al furto del portafogli in metropolitana?) Pigliucci considera estremamente ragionevole e razionale muoversi sulla scena del mondo avendo a mente il cuore dell’insegnamento dello stoicismo, ossia che esistono cose che dipendono da noi e altre che invece non sono in nostro potere e, nota, “convogliare i nostri sforzi sulle prime senza sprecare tempo con le seconde”.

Funziona, tutto questo? Stando ai risultati della “Settimana stoica”, un evento filosofico sperimentale di scienze sociali organizzato da un gruppo di ricerca dell’Università di Exeter, nel Regno Unito, con la collaborazione di numerosi accademici e psicoterapeuti cognitivi sembrerebbe proprio di sì. “Tra i partecipanti, per esempio, dopo sette giorni”, scrive Pigliucci, “sono stati osservati un incremento del 9 per cento delle emozioni positive, una diminuzione dell’11 per cento di quelle negative e un aumento del 14 per cento del livello di soddisfazione generale di vita”.

Anche questo mettere alla prova e saggiare concretamente la propria dottrina sarebbe piaciuto ai maestri dello stoicismo i quali consideravano la loro filosofia aperta, suscettibile di cambiamenti e pronta ad essere messa in discussione e adattata di fronte all’onda d’urto della vita.

Insomma, essere stoici oggi non è affatto un azzardo. Pigliucci lo spiega molto bene evidenziando come quest’antica filosofia ha permeato nei secoli innumerevoli autori e dottrine filosofiche: Agostino, Boezio, Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno, Tommaso Moro, Erasmo, Bacone, Cartesio, Montesquieu, Spinoza, l’esistenzialismo fino al Novecento con la logoterapia di Viktor Frankl, Albert Ellis e varie forme di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

C’è, infine, un altro aspetto che contribuisce alla modernità dello stoicismo: lo stile.

Se fossero vissuti oggi molti di loro, da Seneca a Marco Aurelio allo stesso Epitteto, sarebbero blogger affermatissimi, terrebbero rubriche di lettere sui giornali e adopererebbero sicuramente i social network dove il messaggio è tanto più efficace quanto più è breve (pensiamo ai 140 caratteri di Twitter). Gli stoici, in questo, sono maestri: attraverso lo stile epigrammatico e paradossale trasformano la frase in aforisma e l’incidono nella memoria, dilatano il significato dei concetti, illuminano sempre nuovi aspetti di vecchie verità e danno alle loro pagine il sapore della vita. Il loro moralismo, da intendere in senso etimologico (indagatore di mores) e non come banditore di una morale, è una delle armi forse più efficaci con cui combattono la battaglia per la salvezza laica dell’uomo, soprattutto nella sventura. Dopo tutto, non è un caso se sotto il Terrore gli intellettuali francesi confortavano con la lettura di Seneca l’attesa della ghigliottina.

L’APPUNTAMENTO A TEMPO DI LIBRI – Il 19 aprile, alle 17.30, presso il Caffè Garamond – PAD. 4 Massimo Pigliucci presenta il suo saggio con Antonio Sanfrancesco.

 

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