Su ilLibraio.it un capitolo dal saggio di Stefano Massini, drammaturgo e autore di “Lehman Trilogy”, che esplora tutti i meandri di una parola insidiosa e corrotta nell’uso: lavoro

Si può parlare di lavoro in molti modi. Il saggio di Stefano Massini, pubblicato da Il Mulino, esplora tutti i meandri di una parola insidiosa e corrotta nell’uso, resa spesso inefficace dal suo rimbalzare tra i dialoghi sguaiati dei talk show. Davanti a noi si apre così una prospettiva inedita, quella del drammaturgo che si addentra per un sentiero tanto impervio quanto suggestivo. Il sipario si alza, la parola va in scena: sul palcoscenico si avvicendano personaggi storici e della fantasia, figure del cinema e della letteratura, uomini e umanoidi, ma soprattutto risuona la vita e il dramma del lavoro nel nostro presente.

L’autore di Lavoro è il consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano/Teatro d’Europa e insegna alla Scuola di Recitazione fondata da Giorgio Strehler. Drammaturgo, sceneggiatore e romanziere, è autore di Lehman Trilogy, ultima regia teatrale di Luca Ronconi.

Copertina Lavoro

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un capitolo:

Pinocchio al contrario

Ho  la sensazione che dietro le quinte della parola lavoro si nasconda in questo caso molto più che un disagio passeggero. Gli esiti del conflitto fra uomo e tecnologia non possono essere minimizzati come effetto collaterale di una fase transitoria, destinata a riassorbirsi in una perfetta simbiosi fra noi e loro. Il mondo del lavoro è infatti il campo di battaglia in cui più forte è il confronto fra due modelli antitetici: da un lato lo schema logico – rigoroso e matematico – che sta alla base di ogni tecnologia, contrapposto al pulsare emozionale che rende imprevedibile la natura dell’essere umano. Consapevole d’essere il teatro di questo duello, il lavoro è divenuto sinonimo di una continua sfida alla resistenza emotiva, percepita ormai chiaramente come un limite. Il meraviglioso apporto della soggettività si è lentamente trasferito sulla colonna dei difetti, spazzato via dall’uniformazione più rassicurante e monocroma. Non solo. Indottrinati da un tecnicismo divenuto dogma, abbiamo finito per ambire alla massima specializzazione intesa come ultra-competenza in un ambito ultra-specifico (e dunque ultra-limitato). Così facendo, il nostro orizzonte di interessi si è sempre più ristretto, e la naturale curiosità del bambino viene sempre più precocemente amputata sulla carta millimetrata di un sapere settoriale. Sarà un caso, mi chiedo, se i contadini cambiavano ciclicamente le colture di un campo, sostenendo che nella monotonia la terra si impoverisse? Temo sia questa la ragione per cui alla parola lavoro non è estranea un’idea di piattezza, di apatica routine, di annoiata ripetizione all’infinito. Il cosiddetto know-how, d’altra parte, consiste ormai in nient’altro che in un manualetto circoscritto, mortificante, in cui la propensione umana alla conoscenza viene costretta nel bauletto pronto all’uso di poche competenze pratiche. Nulla di diverso dal principio che sovrintende a un software, e difatti sempre più ci sentiamo corpi assimilati a un hardware, programmabili per offrire un servizio. Ma poiché l’hardware ha il suo sovrano requisito nella funzionalità dell’interfaccia, tutto ciò che non attiene a un’immediata pratica è bandito dal sistema: come all’interno di una buffa selezione naturale, sembra ormai destinato a sopravvivere solo chi vanti efficienza massima e autocontrollo. Attenzione, perché la strada può riservarci insidie: a me sembra che già ora l’identikit del lavoratore perfetto abbia finito per assumere i connotati di un centro di produzione ambulante. L’essere umano in termini lavorativi è auspicabilmente disumanizzato, e se possibile affetto da una specie di morbo di Asperger, affidabile perché asettico e non distratto da inutili legami relazionali. In altri termini, la macchina è divenuta un modello, ma poiché i suoi standard sono impossibili da eguagliare, su tutto il sistema lavoro è scesa una coltre di rassegnata frustrazione.

Nel frattempo, lanciati in una pericolosa gara ad alzare sempre più l’asticella della prestazione, cominciamo a contare i danni. E anche su questo punto l’analisi delle parole ha molto da insegnare, visto che migliaia di lavoratori fanno sempre più spesso i conti con una patologia psichica denominata “sindrome da burn-out”, laddove il termine inglese significa niente meno che “corto-circuito” e proviene (guarda caso) dal linguaggio delle macchine. Un tempo chiamato “esaurimento da sforzo” se non “malattia da stress”, il burn-out è una forma patologica di crisi del lavoratore, precipitato in uno stato di prosciugamento, devastante crollo di motivazione e quindi di efficienza. Ora, al di là del segnalare che i sintomi clinici sono molto simili a quelli dell’astinenza da droga, ci interessa far presente come tutto l’insieme dei segni rilevatori del burn-out abbia un qualcosa di curiosamente connesso al nostro discorso sulla tecnologia. Gli psicologi descrivono le fasi preparatorie del collasso come momenti di lavoro esasperato e totalizzante, in cui il lavoratore lentamente si inaridisce nei rapporti, diventa indifferente, cinico e depersonalizzato, quindi finisce per infliggersi una spietata continua reprimenda di tutti i propri limiti, errori e carenze. Io mi chiedo: come definire tutto ciò se non come il sublime momento di completa trasformazione dell’uomo in macchina?

Curiosa la parabola dell’uomo moderno. Si applica con tutto se stesso per emulare un modello, e quando lo raggiunge si aprono per lui le porte della clinica. Ne avrebbe sorriso, credo, il buon Collodi, che al suo Pinocchio faceva guadagnare lo stato di ragazzo con un percorso redentivo fatto solo di umanissimo lavoro (il discolo impara a intrecciare giunchi e si spezza la schiena tirando su da una cisterna centinaia di secchi d’acqua per annaffiar le insalate d’un ortolano): oggi la storia si inverte, i termini si ribaltano, e a forza di lavorare ci si trasforma, semmai, da corpi umani in burattini. Pardon: automi. La differenza è minima: i primi fanno ridere. I secondi no.

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