“Chi accetta la corruzione per soddisfare ambizioni, vanità, sogni di gloria e ricchezza mette in atto una progressiva anestetizzazione della propria coscienza…”. L’intervento di frate Alberto Maggi, che ripercorre la Bibbia, sin dalla Genesi, per condannare uno dei mali dei nostri tempi (che ha un’origine antica)

Per gentile concessione dell’autore e della rivista, riproponiamo un intervento del biblista Alberto Maggi pubblicato originariamente sul n. 6 (luglio 2017) di Orientamenti Pastorali


IL RIVALE DI DIO

Il grande ostacolo che Dio incontra nel comunicare all’umanità il suo amore, non è il peccato. Il Signore sa che la forza del suo amore è in grado di sbriciolare e polverizzare ogni sorta di colpa: “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana” (Is 1,18). Dalla speranza in questa misericordia, più forte del peccato, sgorga la fiduciosa preghiera del peccatore, che chiede al Signore di perdonare la sua colpa “anche se è grande” (Sal 25,11) e, certo del perdono, prega: “Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro… Aspergimi con rami d’issopo e sarò puro; lavami e sarò più bianco della neve” (Sal 51,4.9). Questa fiducia nel perdono ha sempre fatto parte del patrimonio spirituale della Chiesa, che instancabilmente insegna come anche il peccatore più incallito può diventare un santo, e ogni colpa, perfino la più grave, può trasformarsi in felix culpa, perché “dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rm 5, 20).

Ma c’è una barriera, un ostacolo nei confronti del quale anche il Signore è impotente: è il mamona, vocabolo aramaico che indica il patrimonio, con riferimento non solo al denaro, ma anche ai posse­dimenti e a tutto ciò che ha un valore. Nei vangeli Gesù denuncia l’assoluta incompatibilità tra Dio, l’amore che si pone generosamente a servizio degli uomini, e mamona, l’interesse che tutto volge alla propria convenienza (Mt 6,24; Lc 16,13).

Per coloro che scelgono mamona, l’interesse, l’avidità, la bramosia di possedere, diventano la norma suprema in base alla quale sottomettono ogni verità, ogni morale: è buono quel che conviene, non quel che effettivamente fa bene, è vero quel che al momento torna utile e non la verità, come denuncia il profeta Isaia: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Is 5,26).

L’arma da sempre vincente, per sottomettere tutto e tutti alla propria convenienza, è la corruzione, della quale il denaro, inteso non solo come moneta, ma come quel che può garantire l’adeguata ricompensa alla sottomissione, è il principale strumento, e serve anzitutto per eliminare gli ostacoli, rendere dritto quel che è storto e storto quel che è dritto pur di giungere allo scopo prefissato. Infatti il denaro serve a far chiudere gli occhi per non vedere, tappare le orecchie per non ascoltare e serrare la bocca per non parlare (“Per amor del denaro molti peccano, chi cerca di arricchire volta lo sguardo”, Sir 27,1).

Chi però cede alle lusinghe e alle prospettive del beneficio che gli viene dal lasciarsi corrompere, intasca denaro inquinato, oro tossico, il cui luccichio maschera il veleno che porta in sé, e che una volta accolto innesca nella persona una progressiva crescente paralisi che atrofizza la mano, rendendola incapace di qualunque azione, immobilizza il piede, impedendo la libertà di movimento e rende orbo l’individuo, distorcendo irrimediabilmente la visione della vita e dei suoi valori (Mt 5,29-30). Una mutilazione della quale si è coscienti e che viene accettata, perché si ritiene che il beneficio che ne può venire sia più grande del danno subito; finché l’illecito compenso, come un tossico volontariamente accettato, giunge nell’intimo più profondo della persona, e allora non è solo il corpo a patirne, ma lo spirito stesso, soffocato, atrofizzato e infine estinto. Chi accetta la corruzione per soddisfare le sue ambizioni, vanità, sogni di gloria e ricchezza mette in atto una progressiva anestetizzazione della propria coscienza, in un processo irreversibile di prostituzione che lo porta al totale annientamento della sua esistenza. La corruzione è infatti come un grimaldello che è capace di scardinare ogni etica, un’attrazione perversa e irresistibile dalla quale nessuno può dichiararsi indenne o esente (“sono tutti traviati, tutti corrotti”, Sal 14,3), perché si sa, “i regali corrompono il cuore” (Qo 7,7) e, come insegna la Scrittura, “Chi ama il denaro, mai si sazia di denaro e chi ama la ricchezza, non ne trae profitto” (Qo 5,9).

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 Il Signore, per bocca del profeta Isaia, denuncia che, a causa della corruzione, persino Gerusalemme, la città santa, è diventata una prostituta, dove tutto si può comprare: “I tuoi capi sono ribelli e complici di ladri. Tutti sono bramosi di regali e ricevono mance. Non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge” (Is 1,21.23). Gli fa eco il profeta Ezechiele, che denuncia che a Gerusalemme nessuno si salva, perché “i suoi capi in mezzo ad essi sono come lupi che dilaniano la preda, versano il sangue, fanno perire la gente per turpi guadagni” (Ez 22,27), mentre Michea accusa che perfino i sacerdoti e profeti si sono lasciati corrompere: “i suoi capi giudicano in vista dei regali, i suoi sacerdoti insegnano per lucro, i suoi profeti danno oracoli per denaro…il giudice si lascia comprare, il grande manifesta la cupidigia, e così distorcono tutto” (Mi 3,11; 7,3).

L’interesse, origine e causa di ogni ingiustizia, è il vero “dio di questo mondo” (2 Cor 4,4), e chi gli rende culto è un idolatra (Col 3,5). Nella Scrittura si pone in stretta relazione la corruzione con l’idolatria, come si legge nel Libro della Sapienza: “L’invenzione degli idoli fu l’inizio della fornicazione, la loro scoperta portò alla corruzione della vita” (Sap 14,12). Nella Lettera di Giuda si leggono parole tremende nei confronti dei corrotti idolatri: “Guai a loro! Perché si sono messi sulla strada di Caino e, per guadagno, si sono lasciati andare alle seduzioni di Balaam e si sono perduti nella ribellione di Core” (Gd 11). Per questi motivi, tutta la Scrittura è attraversata dalla denuncia della corruzione, tossica perversione che disgrega e corrode tutto e tutti eccetto se stessa, dannando la persona, che si crede viva mentre è morta (Ap 3,1), che più mangia, più ha fame, più accumula più si sente povera, come denuncia il profeta Isaia “Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nella terra” (Is 5,8) e, come smaschera impietosamente l’autore dell’Apocalisse, “Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3,17). L’orizzonte del corruttore è angusto, vede solo quel che gli è utile, gli serve, può manipolare, per soddisfare la sua insaziabile ingordigia, ma la Scrittura giudica una stoltezza questo vano agitarsi (“È come una pernice che cova uova altrui, chi accumula ricchezze in modo disonesto. A metà dei suoi giorni dovrà lasciarle e alla fine apparirà uno solto”, Ger 17,11), come conferma Gesù, ammonendo di tenersi “lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”. Chi non lo fa è semplicemente uno stupido: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (Lc 12,15.20).

Già dal primo libro della Scrittura, la Genesi, l’autore sacro mette in guardia dal corruttore per eccellenza, l’astuto manipolatore che della seduzione fa la sua arma, e della menzogna la sua verità: “il serpente disse alla donna: Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,4; 2 Cor 11,3), e l’ultimo libro che compone la Scrittura cristiana denuncia “il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana che seduce tutta la terra abitata” (Ap 12,9). Certo della sua capacità di seduzione, il diavolo non indietreggia di fronte a nulla, sa che il suo potere corruttivo è talmente allettante che prima o poi tutti cedono alle sue lusinghe. Per questo non esita a voler corrompere lo stesso Figlio di Dio, mostrandogli tutti i regni della terra: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo” (Lc 4,6-7). Se Gesù ha rifiutato in maniera netta e radicale la seduzione del potere, sono purtroppo molti quelli che ben volentieri cedono, in verità senza molte resistenze, alle lusinghe di colui che è “menzognero e padre della menzogna”, l’omicida fin da principio nel quale “non c’è verità” (Gv 8,44).

La stessa storia di Israele porta in sé le stimmate della corruzione, il potere del denaro capace di vincere ogni ideale. Conoscendo quel che c’è nel cuore degli uomini, il saggio Ietro, suocero di Mosè, quando si trattò di costituire dei capi sul popolo, consigliò di scegliere quelli che avessero come prima fondamentale caratteristica di essere uomini veritieri che odiassero il guadagno ingiusto (Es 18,21), e il profeta Isaia pone come condizione per la piena comunione con Dio quella di rifiutare un guadagno che sia frutto di oppressione e di scuotere “le mani per non prendere doni di corruzione” (Is 33,15). E se il grande Samuele, il profeta “amato dal suo Signore” (Sir 46,16), sarà ricordato per la santità della sua vita, non così i suoi figli che “non camminavano sulle sue orme, perché deviavano dietro il guadagno, accettavano regali e stravolgevano il diritto” (1 Sam 8,3).

Erano certamente valorosi quei giudei che mettendosi al seguito di Giuda il Maccabeo si ribellarono all’occupazione straniera idolatra, e non esitarono a sacrificare le loro vite, al tempo di Antioco Epuràtore. Eppure, sconfitto il nemico, vennero sconfitti dal denaro dell’avversario. Infatti, si legge nel Secondo Libro dei Maccabei che “gli uomini di Simone, vinti dalla prospettiva del guadagno, si lasciarono persuadere per denaro da alcuni che erano nelle torri e, ricevute settantamila dracme, ne lasciarono fuggire alcuni. Quando fu riferito al Maccabeo l’accaduto, radunati i capi del popolo, li accusò di aver venduto per denaro i loro fratelli, mettendo in libertà i loro nemici” (2 Mac 10,20-21). Vendere per denaro i fratelli è un triste mercimonio che ha lontane radici, con il penoso episodio di Giuseppe, venduto dai suoi stessi fratelli per venti sicli d’argento agli Ismaeliti, che a loro volta lo rivendettero agli egiziani (Gen 37,12-36). Colpa che continua a macchiare la storia del popolo e che viene severamente rimproverata dal Signore a quanti “hanno venduto il giusto per denaro” (Am 2,6) e, insaziabili nella loro bramosia di possesso, “sono ostili verso il giusto, prendono compensi illeciti e respingono i poveri nel tribunale” (Am 5,12).

La Parola di Dio assicura che “ogni corruzione e ogni ingiustizia sparirà” (Sir 40,12), ma certamente questo non avverrà per un intervento divino bensì per una profonda radicale conversione del cuore umano, quando questo finalmente si renderà conto che i beni servono per essere condivisi e non accumulati, e che si possiede solo quel che si dona, perché quel che si trattiene per sé non si possiede ma se ne viene posseduti, come il ricco, che illuso di potersi servire dei suoi bene in realtà ne era diventato il servo (Mc 10,17-22).

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L’apostasia

Il denaro appare nel vangelo di Matteo sempre in una luce sinistra e strumento di corruzione e di morte. Col denaro i sommi sacerdoti si sono impadroniti di Gesù, tradito e venduto da Giuda (Mt 26,14-16) per trenta sicli d’argento, il prezzo di uno schiavo (Es 21,32), e con il denaro tentano di impedire l’annuncio della sua risurrezione e di corrompere il governatore romano. Con l’episodio delle guardie comprate, esclusivo di Matteo, si pone in stretta relazione la corruzione e l’annuncio della risurrezione del Cristo (Mt 28,11-15). I sommi sacerdoti non mostrano alcun segno di meraviglia alla notizia della risurrezione di Gesù, e tantomeno di pentimento per il crimine compiuto. L’unica loro preoccupazione è occultare la verità del fatto e, insieme agli anziani, con i quali si erano già riuniti per dare morte a Gesù, si radunano nuovamente per impedire la notizia della resurrezione del Cristo, decidendo di corrompere le guardie: “diedero una buona somma di denaro ai soldati, dicendo: Dite così: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo” (Mt 28,12). I sommi sacerdoti non solo sono responsabili della morte di Gesù, ma anche della smentita della sua risurrezione. L’evangelista mette in evidenza come il potere della casta sacerdotale sia talmente grande da influenzare l’opinione del popolo e riesca persino a condizionare il governatore romano: “E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione” (Mt 28,14). Per Matteo è questa la “bestemmia contro lo Spirito” (Mt 12,31-32): nascondere la verità per mantenere i propri privilegi. L’evangelista unisce i sommi sacerdoti e le guardie dallo stesso gesto di prendere le monete d’argento. I primi per corrompere, i secondi per farsi corrompere. Il denaro è quel che unisce i dominatori e i dominati (Mt 28,12.15). Queste guardie erano romane, al servizio del governatore, erano i dominatori della Palestina. Eppure i conquistatori sono stati conquistati dalle “alquante monete d’argento” (Mt 28,12). Le guardie, che sono disposte a tradire il governatore, a giurare il falso, pur di intascare un po’ di monete, sono in realtà dei mercenari pronti a vendersi a chi offre di più. E chi serve mamona non può essere testimone della resurrezione ma solo un suo negatore.

Dai sommi sacerdoti, sedicenti rappresentanti di Dio, non può venire un annuncio di vita, ma solo di morte, perché essi sono coloro che “promettono loro libertà, mentre sono essi stessi schiavi della corruzione. L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina” (2 Pt 2,19). Eliminando Gesù, i sommi sacerdoti rimangono proprietari indiscussi del popolo (“Su! Uccidiamolo e avremo noi la sua eredità”, Mt 21,38), ma se per denaro Giuda ha tradito il suo maestro, con il denaro i sommi sacerdoti tradiscono il loro Dio. Sommi sacerdoti e farisei avevano definito Gesù un impostore e la resurrezione un’impostura. In realtà sono costoro gli autori di un’“impostura peggiore della prima” (Mt 27,62-64) che li porta all’apostasia. Tra Dio e mamona i sommi sacerdoti non hanno esitato e hanno scelto quale dio servire, e per questo si sottomettono a Pilato che riconoscono loro Signore (Mt 27,63; Cfr Gv 19,15: “Non abbiamo altro re che Cesare”).

 Giuda, il diavolo

Giuda, il discepolo che è arrivato a tradire il suo maestro per interesse (“Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?”, Mt 26,14), è immagine dell’uomo che per la sete di denaro ha smarrito se stesso. Di fronte all’annuncio fatto da Gesù della sua morte ormai imminente, Giuda pensa di guadagnarci qualcosa. Pur chiamato da Gesù al suo seguito (Mt 10,4), la parola è caduta sui rovi, immagine della seduzione della ricchezza che soffoca il messaggio (Mt 13,7.22). Considerato che ormai le autorità hanno deciso di eliminare Gesù (e tutto il suo gruppo, Gv 18,19), Giuda decide non solo di salvarsi, ma di trarne anche un vantaggio economico. All’invito di Gesù di farsi povero per entrare nel regno dei cieli (Mt 5,3) Giuda ha preferito il denaro, farsi servo di mamona, “colui che ha potere di far perire nel fuoco della Geenna la vita e il corpo” (Mt 10,28). Non avendo accolto la beatitudine della scelta per la povertà (Mt 5,3) Giuda rimane invischiato nella maledizione di “quella cupidigia che è idolatria” (Col 3,5) che lo porta a perdere se stesso: “Maledetto chi accetta un regalo per condannare a morte un innocente” (Dt 27,25).

Gesù aveva avvertito i suoi discepoli: “Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?” (Mt 16,26). Giuda ha venduto Gesù per denaro, ma non si gode il frutto del tradimento. Resosi conto del crimine commesso (“Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”, Mt 27,4), anziché allontanarsi dai sommi sacerdoti e andare da Gesù e ottenere il perdono, va dai mandanti del crimine, dai quali può venire solo morte, e così rimane nel suo peccato. L’uomo, che sarebbe stato meglio “se non fosse mai nato” (Mt 26,24), ha fallito il progetto della sua esistenza ed è come se non fosse mai esistito. La sua vita, come quella di tutti coloro che soccombono alla bramosia del denaro e alla corruzione, è solo un passaggio effimero: ha fatto di tutto per distruggere se stesso, preferendo il valore del denaro a quello della vita.

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Altrettanto severo il giudizio di Giovanni nei confronti del discepolo traditore. Secondo l’evangelista, l’unica volta che Giuda parla è per difendere il suo tornaconto: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?” (Gv 12,5). L’amore dimostrato dalla comunità a Gesù nuoce all’interesse di Giuda, perché per lui il profitto è il valore più importante. Giuda rimprovera Maria perché il suo gesto d’amore verso Gesù è andato a scapito dei poveri, ma in realtà è proprio Giuda, in quanto ladro, a causarne la povertà: “Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro” (Gv 12,6). Giuda preferisce il denaro all’amore, per questo tradisce Gesù: l’aver consegnato il suo maestro alle guardie non è che il gesto finale di una continua infedeltà al maestro e al suo messaggio. Giuda ha sempre fatto il contrario di quel che Gesù faceva e insegnava: quel che era degli altri lo prendeva per sé, anteponendo sempre il proprio interesse a quello altrui.

Gesù aveva definito Giuda quale diavolo (“Uno di voi è un diavolo!”, Gv 6,70), perché il diavolo è immagine dell’interesse che toglie vita agli altri provocandone la morte; eppure fino all’ultimo Gesù gli offre vanamente il suo amore. Di fronte al discepolo che intende tradirlo, Gesù non solo non lo denuncia, ma gli manifesta un amore ancora più grande di quello dimostrato agli altri discepoli. Durante il pranzo il padrone di casa iniziava infatti intingendo un pezzo di  pane nella salsa, e lo porgeva all’ospite più importante. Con il boccone Gesù dona se stesso a Giuda. Risponde con amore all’odio, confermando la qualità dell’amore fedele. La vita di Gesù è nelle mani di Giuda. Dipende dal discepolo che uso farne. Se mangia il boccone assimila la vita di Gesù, se lo rifiuta è preda delle tenebre di morte. Ma Giuda ormai si è identificato col Satana, che può entrare in lui perché nel discepolo non è entrato Gesù. Satana prende possesso di ciò che giudica suo: Giuda, ladro e bugiardo (Gv 12,6) ha infatti “per padre il diavolo e compie i desideri del padre suo… omicida fin da principio” (Gv 8,44). Giuda non mangia il boccone, non assimila Gesù, non si identifica con il suo maestro, ma lo porta via, per consegnarlo a chi lo ucciderà. Tra Gesù, che gli offre la vita, e il Satana, Giuda la scelta l’ha già fatta: “Preso il boccone, quello subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30). Gesù l’aveva detto: “Chi fa il male, odia la luce e non viene alla luce” (Gv 3,20). Giuda ha scelto dove dirigersi, non verso la luce della vita, ma nelle tenebre della morte, ha tenuto più al proprio interesse che al perdono del Cristo.

L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici«G. Vannucci» a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vitaRoba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede)Parabole come pietreLa follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ da poco uscito per Garzanti L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita.

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