L’impatto che la sua fotografia ha avuto, e continuerà ad avere, è stato enorme. E, come racconta Paolo Landi (suo più stretto collaboratore) nel libro “Oliviero Toscani – Comunicatore, provocatore, educatore”, provocando il grande fotografo (venuto a mancare il 13 gennaio 2025) ha comunicato, e quindi educato

Quando Oliviero Toscani è morto, il 13 gennaio 2025, i quotidiani e i siti internazionali, dal South China Morning Post al New York Times, da Le Monde a El Pais, lo hanno ricordato con pagine intere.

L’impatto che la sua fotografia ha avuto, e continuerà ad avere, è stato enorme. Oliviero Toscani ha usato le strade delle città e le pagine dei giornali per promuovere un marchio ma, al contrario di quello che fanno tutti, con la pubblicità ha espresso una visione del mondo, la sua, e l’ha fatta coincidere con quella di un’azienda, approfittando per impartire poderose lezioni di solidarietà, di antirazzismo e di passione civile ai “consumatori”, che considerava uomini e donne come lui, con cui dialogare.

In tal senso, come racconta Paolo Landi (suo più stretto collaboratore) nel libro Oliviero Toscani – Comunicatore, provocatore, educatore (Scholé), provocando Toscani ha comunicato, e quindi educato: in ciò, come mostra il saggio biograficoì.

Un libro, quello di Landi (che dal 1991 ha affiancato Toscani nelle campagne sociali per il marchio United Colors of Benetton, di cui è stato direttore della comunicazione fino al 2010), dedicato alle nuove generazioni che vorranno conoscere e studiare Oliviero Toscani.

copertina di Oliviero Toscani. Comunicatore, provocatore, educatore

 

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Un comunicatore per modo di dire

di Paolo Landi

Vorrei provare a dire perché Oliviero non era né un comunicatore, né un provocatore, né un educatore, pur incarnando e riunendo in sé con evidenza tutte le tre dimensioni. Negli anni ’90 non era ancora incominciata quella operazione di ridimensionamento della “comunicazione” che avrebbe preso piede dal 2000 in poi. La moda di laurearsi in comunicazione comincia a diffondersi tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. È in questo periodo che nascono i primi corsi universitari legati alla comunicazione, anche come risposta alla crescente influenza dei media, della pubblicità e delle nuove tecnologie.

Scopri la nostra pagina Linkedin

Seguici su Telegram
Scopri la nostra pagina LinkedIn

Notizie, approfondimenti, retroscena e anteprime sul mondo dell’editoria e della lettura: ogni giorno con ilLibraio.it

Seguici su LinkedIn Seguici su LinkedIn

Con la riforma universitaria di Luigi Berlinguer, nel 1999, che istituisce il triennio e l’eventuale “magistrale”, nascono molti nuovi corsi di laurea, numerosi in ambito comunicativo (scienza della comunicazione, comunicazione pubblica, comunicazione d’impresa, tra gli altri). Prima del ’99, la professione di comunicatore era ancora una professione di un certo peso, chi faceva comunicazione aveva buona reputazione e buoni stipendi.

Ma con l’inflazione delle discipline, si cominciò a considerarle, a torto, lauree adatte agli sfaccendati, a chi non aveva idea di cosa fare nella vita, a chi aveva poca voglia di studiare. Perciò definire Oliviero un comunicatore – al di là che quella fosse veramente, in un certo senso, la sua professione – mi pare un modo di addomesticare l’impatto di ciò che culturalmente Toscani ha rappresentato in quegli anni. Un po’ come dire che Pier Paolo Pasolini era un giornalista: certo,  scriveva sul Corriere della Sera,tecnicamente vero, ma riduttivo.Resiste ancora una gerarchia tra i saperi puri e speculativi (la filosofia, la filologia, l’estetica, la storia, la storia dell’arte) e quelli applicati o ibridi, come la comunicazione, che mischia semiotica, sociologia, marketing e psicologia.

In certi ambiti accademici una materia “se serve a qualcosa, vale meno”. Se poi, dopo averla studiata, fa guadagnare bene, il moralismo si scatena.

Lo diceva anche un Premio Nobel di cui non ricordo il nome: “Ragazzi, studiate filosofia che per imparare il marketing c’è sempre tempo”. Il sapere pragmatico, performativo, legato al potere e al profitto è sospetto, per di più la comunicazione come disciplina è giovanissima, ha mille approcci diversi ed è, molto spesso, più fluida che dogmatica.

I linguaggi che – diremmo oggi – “modellano il reale” danno fastidio, lo stesso fastidio che Toscani creava con le sue pubblicità che venivano da molti – e vengono ancora – disprezzate. La pubblicità come forma degenerata del linguaggio, macchina retorica al servizio del capitale, soffre tuttora, in questi tempi così pragmatici, di marginalizzazione teorica da parte di quegli intellettuali depositari di un logos “alto”, o di un sapere speculativo, o di un’autonomia che considerano di loro appannaggio estetico e morale.

Quello che faceva Oliviero Toscani agiva come una scheggia nel fianco del sistema: parlando una lingua “plurale”, rivolta a tutti, disturbava l’élite del pensiero, perché si imponeva nella coscienza collettiva con una forza archetipica, oltre che – occorre dirlo con chiarezza – con la potenza dei budget a disposizione, un aggravante secondo quei custodi del sapere. Il codice “basso” usato da Toscani era un punto di rottura perché toglieva il sacro dal tempio e lo portava nelle strade. Toscani scardinava due punti fermi: prendeva qualcosa di semplice, o considerato semplice, la pubblicità, e lo rendeva oggetto di discussione a vari livelli.

Scopri il nostro canale Telegram

Seguici su Telegram
Le news del libro sul tuo smartphone

Ogni giorno dalla redazione de ilLibraio.it notizie, interviste, storie, approfondimenti e interventi d’autore per rimanere sempre aggiornati

Inizia a seguirci ora su Telegram Inizia a seguirci ora

Operava una frattura nell’abitudine percettiva, infrangeva il limite dell’arte colta e del sapere separato, usando la triviale pubblicità, irritando chi aveva costruito la propria legittimità sull’esclusività del discorso critico e consentiva, dall’altro lato, anche a chi non aveva strumenti culturali adatti, di dire la sua, perché le immagini sollecitavano sempre una presa di posizione.

La foto del malato di Aids fotografato sul suo letto di morte usata per fare pubblicità ai maglioni, sollecitava un interrogativo ambiguo: ma vedere uno che muore di Aids fa vendere maglioni? La domanda era solo apparentemente retorica, in realtà dischiudeva un abisso perché la questione vera era: possono il dolore e la pietas essere sfruttati da un dispositivo commerciale come la pubblicità senza tradire la loro verità?

Per molti intellettuali l’uso di quella immagine con sopra il logo verde di un’azienda di abbigliamento rappresentò una profanazione: scardinando la divisione tra la sfera etica e quella commerciale, tra l’iconografia del dolore e la logica del profitto, si dava la stura all’angoscia di un’epoca che non sapeva più distinguere tra autenticità e simulacro, tra gesto di denuncia e gesto di mercato.

Ma quella foto parlava forte, e parlava a tutti, nonostante fosse stata censurata dalla maggior parte dei media sui quali era stata pianificata. Sulle riviste di moda che accettarono di pubblicarla quella pubblicità non parlava più di desiderio, sbatteva in faccia a chi girava pagina una sofferenza che non si poteva guardare.

Eppure, anche la nostra vita quotidiana è fatta di contraddizioni: siamo qualche volta felici e più spesso infelici, ridiamo ma piangiamo anche, non siamo quasi mai dello stesso umore, sfogliamo un giornale o apriamo un social network e vediamo continuamente immagini di consumo alternate a immagini drammatiche, di guerre, di catastrofi naturali, di morte.

E allora? Finché le immagini diverse rimangono nel loro contesto sembrerebbero accettabili: la foto della Frare era uscita in copertina di Life, rivista americana molto diffusa, e non aveva suscitato alcuno scandalo. È quando a un’immagine di morte si sovrappone un logo commerciale, è allora che quell’immagine diventa irricevibile: questo diceva la foto che Toscani aveva scelto, in quel periodo in cui l’Aids era ancora una malattia misteriosa che incuteva terrore.

Voleva provocare? Voleva suscitare un dibattito? Non direi. Io c’ero e semmai posso riferire che Toscani voleva semplicemente testimoniare la vicinanza ideale di un marchio di moda verso tutti i contagiati da quel virus, perché molti appartenevano a quel mondo e al mondo dell’arte. Lui non spiegava, era contrario alle note interpretative o esplicative, non voleva didascalie alle sue foto, lasciava che fossero le immagini a parlare, secondo lo sguardo di chi le riceveva.

(continua in libreria…)

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

 

Libri consigliati