In “Parla bene, pensa bene. Piccolo dizionario delle identità”, Beatrice Cristalli mette a punto un vademecum che raccoglie e prova a spiegare alcune parole-chiave sulle questioni di genere, nella convinzione che solo parlando meglio potremo pensare meglio noi stessi e gli altri – Su ilLibraio.it l’approfondimento dedicato a “cross-dressing”, “deadnaming”, “misgendering” e “stealth”, quattro parole inglesi in cui ci si imbatte sempre più di frequente

Le parole sono importanti, vanno scelte con cura. E questo è tanto più vero quando parliamo delle identità che ci abitano, in riferimento cioè a un discorso che si impone con urgenza in una società che ambisce ad abbracciare la complessità e però manca di una base condivisa per capirla e per descriverla: le parole, appunto.

D’altronde, come si può comprendere una conversazione, se non si possiedono le parole? Come si può intervenire in modo responsabile nel dibattito, se non si hanno gli strumenti primi per decifrarlo?

Mezzo busto di Beatrice Cristalli

Beatrice Cristalli (foto di foto di Marta Castaldo)

Ecco perché in Parla bene, pensa bene. Piccolo dizionario delle identità (Bompiani), la consulente in editoria scolastica, formatrice e linguista Beatrice Cristalli ha messo a punto un vademecum che raccoglie e prova a spiegare alcune parole-chiave sull’argomento, avvalendosi delle sue competenze sull’evoluzione dei linguaggi della contemporaneità, sul mondo della Generazione Z e sulla comunicazione digitale nell’onlife.

Dal binarismo di genere al gender mainstreaming, passando per il concetto di identità e per quello di transizione, solo per citarne alcune, le parole di questo volume ci aiutano quindi a parlare meglio di sesso, orientamento sessuale, orientamento romantico, espressione e ruoli di genere. Perché solo parlando meglio potremo pensare meglio noi stessi e gli altri.

Copertina del libro Parla bene pensa bene di Beatrice Cristalli

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo l’approfondimento tratto dal volume dedicato a quattro parole inglesi sempre più frequenti nel dibattito sulle questioni di genere:

Cross-dressing

Da un po’ di tempo mi chiedo perché Harry Styles, l’ex componente più famoso degli One Direction, piaccia così tanto agli adolescenti della generazione Z. Mi sono fatta un’idea dopo una bufera mediatica che nel 2020 ha coinvolto la giornalista Caterina Collovati nel programma “Ogni mattina” in onda sul canale TV8. In una puntata dei primi di dicembre era stata invitata come opinionista a proposito di alcuni outfit nel mondo dello spettacolo, e alla vista dell’ultima copertina di Vogue, che ritraeva un Harry Styles cross-dresser, cioè vestito con abiti femminili, l’avrebbe commentata con queste parole: “Qui non c’entra niente l’identità sessuale, anzi, con questo fenomeno si sta svilendo la battaglia dell’identità sessuale. Io dico che ridicolizzare un maschio, come Harry Styles, mettendolo in abiti femminili è fuorviante, è un messaggio circense, mi viene in mente il pagliaccio del circo.” La polemica sui social, che si è scatenata a suon di hashtag su Twitter con #ognimattinaisoverparty, non è scaturita tanto dall’espressione di un’opinione — legittima —, ma dall’incapacità della giornalista di riconoscere il contesto in cui l’artista agisce e, soprattutto, dalle modalità decisamente poco inclusive di esprimere il proprio pensiero. Harry Styles è considerato infatti un’icona della generazione Z soprattutto per il suo impegno nello sradicare i pregiudizi sull’identità e l’espressione di genere, e nella battaglia per la diffusione del cross-dressing, letteralmente “travestimento”, cioè l’abitudine di indossare vestiti comunemente associati al ruolo di genere opposto al proprio, senza che questo veicoli un messaggio sull’identità di genere o sull’orientamento sessuale. Si tratta di una pratica antichissima già presente nel kabuki, una forma del teatro giapponese del Seicento, mentre un’altra forte influenza in questo senso va ricondotta al pop sudcoreano, il K-Pop, il cui immaginario estetico e caratterizzato da un labile confine tra abbigliamento femminile e maschile.

La ricezione del prestito inglese cross-dressing, termine che nel Supplemento 2003 del Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT) viene definito come “l’abbigliarsi, l’adornarsi e il comportarsi come se si appartenesse al genere sessuale opposto al proprio”, solleva una questione che va oltre l’aspetto puramente linguistico, ovvero il suo legame con la parola travestitismo, apparsa per la prima volta nel 1910 e percepita come un gioco di prestigio, un vero e proprio inganno o camuffamento. Con l’intento di sciogliere la carica negativa che questo termine emana, l’entrata di cross-dressing nella lingua risulta essere un’ottima soluzione inclusiva, poiché il significato del prefisso cross-, “incrociare”, risponde alla visione di genere come continuum, che può essere immaginata lungo uno spettro nel quale e possibile incrociare tratti convenzionalmente attribuiti al genere maschile e altri ritenuti specifici del genere femminile.

Deadnaming

Negli ultimi anni ci siamo accorti che la discriminazione viaggia su leggi implicite, talvolta nascoste, ben mascherate. Ma questo non basta per disinnescarla. Per alcuni fare attenzione al linguaggio che usiamo – e non parlo solo di lessico – sembra ancora una questione di dettaglio, quasi fosse un capriccio per pochi eletti o per i soli professionisti del settore. A chi sostiene che “non si può più dire niente” rispondo che nessuno ci ha insegnato da piccoli a comunicare bene, ad avere consapevolezza delle parole, ma la responsabilità che ci assumiamo nel percorso verso l’adultità può fare la differenza. Fino a prova contraria viviamo in una società, non su un’isola deserta. Parlare bene è un atto di responsabilità, che si costruisce nel tempo. Se si vuole, ovviamente.

Per far comprendere ad alcuni studenti cosa significa tutto questo, ovvero “fare cose con le parole”, come direbbe il filosofo del linguaggio John Langshaw Austin¹, ho chiesto loro di mettersi nei panni di una persona che viene chiamata con un nome sbagliato, ma non un nome sbagliato qualsiasi, bensì con un dead name, cioè un nome che non ha più niente a che fare con l’identità di genere in cui la persona si riconosce, che non c’entra più con la sua vita. Un “nome morto”, dunque, che parla solo al verbo passato. Per molte persone trans* subire da altre persone deadnaming, ovvero essere chiamate con il nome di battesimo, quello scelto alla nascita e che corrisponde al sesso biologico ma non all’identità di genere, rappresenta un atto discriminatorio. La reiterazione del dead name delegittima l’identità percepita della persona e sottolinea il suo “riconoscimento” solamente attraverso il sesso biologico, cui la persona interessata non sente più di appartenere.

Starbucks welcomes you, whoever you are and whomever you want to be.”² Con questo slogan la campagna #whatsyourname di Starbucks UK, che ha vinto il Diversity in Advertising Award di Channel 4, premio che sfida la mancanza di rappresentanza della comunità LGBTQIA+ nella pubblicità britannica, ha voluto mettere in evidenza quanto la questione del nome sia tutt’altro che secondaria per le persone trans*. La pratica discriminatoria del deadnaming si inserisce inoltre nel più ampio fenomeno del cosiddetto misgendering, che si attua quando ci si riferisce all’interlocutore in modi che corrispondono al suo sesso biologico e disconoscono l’identità di genere prescelta.

Non rispettare il “nome di elezione”, cioè il nome che la persona, durante e dopo la sua transizione sociale (conosciuta anche come gender affirming), ha deciso di adottare per sé è una violazione dell’identità. Se si chiama dead name ci sarà un motivo, no?

Misgendering

All’inizio di febbraio 2022 TikTok ha annunciato un aggiornamento delle linee guida in merito a casi di hate speech o discorso d’odio. Nello specifico, sono finite nel mirino tutte le forme di omofobia e transfobia, come i casi di deadnaming e di misgendering. Entrambi gli atteggiamenti discriminatori riguardano le modalità con cui ci si rivolge alle persone trans*. Si fa misgendering quando ci si riferisce alla persona in questione con l’articolo, la desinenza o il pronome che non corrispondono alla sua identità di genere. Può capitare che per disattenzione, dopo aver chiesto per esempio al nostro interlocutore il pronome con cui preferisce essere chiamato, ci si possa sbagliare. Il misgendering diventa tale se l’azione, a seguito dell’informazione e del confronto diretto, è reiterata. In ogni caso, anche se e sempre preferibile chiedere alla persona interessata, bisogna ricordarsi che una persona trans* “non e il tuo google search e non hai il diritto di fargli tutte le domande che ti vengono in mente”³.

Il misgendering può manifestarsi anche come una discriminazione più sottile, meno evidente. Per esempio frasi come “Non avrei mai detto che fossi trans!” o “Ma dai, non si vede!”, anche se possono sottintendere la volontà di esprimersi positivamente nei confronti della persona che si ha di fronte, sono atti di misgendering, perché perpetuano un messaggio discriminatorio che ha molto a che vedere con il concetto di visibilità. Questo accade perché alcune persone si rapportano con le persone trans* introiettando nella comunicazione un canone estetico e comportamentale “eteroimitativo” o di “eterosomiglianza”. Della serie: ti accetto “di più” se assomigli “veramente” a un uomo o a una donna, come il canone impone. La stessa situazione può accadere anche a una persona di orientamento omosessuale che, in virtù di un atteggiamento virile, potremmo dire “da macho”, può essere più facilmente accettata dalla società, ormai abituata a considerare l’uomo secondo una visione stereotipata ed eteronormativa.

Stealth

Letteralmente “invisibile”, il termine stealth è mutuato dal linguaggio militare, dove identifica gli aerei invisibili ai radar. Viene usato dalle persone trans* per descrivere chi sceglie di non rendere pubblica la propria identità trans*, di non raccontare le proprie esperienze o il proprio passato legato alla transizione. Le motivazioni possono essere varie: in molti casi si adotta una vita sotto il segno dell’invisibilità per sfuggire ad attacchi transfobici prodotti da pregiudizi, stigmatizzazione e stereotipi di genere nei confronti di persone transgender.

L’accademico americano Darryl B. Hill descrive secondo una prospettiva intersezionale il versante comportamentale della violenza contro le persone trans*: “Il genderismo riguarda l’atteggiamento culturale negativo, la transfobia alimenta l’atteggiamento con la paura, il disgusto e l’odio, e il gender bashing (“pestaggio”) e l’espressione violenta di queste credenze”⁴.

Ma c’è anche chi crede di non avere nulla da rivelare, perché dopo la transizione non si considera più transgender e vive la vita pienamente nella sua identità considerando irrilevante la scelta di condividere o meno la propria storia. Si può essere stealth solo in alcuni ambiti, per esempio sul posto di lavoro o in eventi pubblici. Spesso si associa a questo termine la parola passing, ovvero passare fisicamente per cisgender, il che per molte persone trans* rappresenta una costante in grado di influenzare modo di vivere, relazioni con gli altri e con il proprio corpo. Consiste infatti nella ricerca continua di cambiamenti fisici per assomigliare il più possibile a uomini o donne cisgender, secondo i ruoli di genere imposti dalla società. Come spiega Ethan Caspani in un’intervista rilasciata a Cosmopolitan: “La ricerca del passing può trasformarsi in un atteggiamento tossico; c’è chi passa giornate intere a focalizzarsi sul proprio aspetto fisico cercando di capire cosa potrebbe essere nascosto o migliorato o eliminato. C’è chi non esce di casa per evitare che venga visto dagli altri, temendo il giudizio costante delle persone. Il passing non deve diventare un’unità di misura per valutare l’autenticità di una persona. L’identità di una persona transgender rimane valida a prescindere dal suo aspetto fisico”⁵.

¹ John Langshaw Austin, Come fare cose con le parole, Bologna, Marietti 1820, 2019.

² “Starbucks ti dà il benvenuto, chiunque tu sia e chiunque tu voglia essere.”

³ Così ha scritto in un post Elia Bonci, ragazzo transgender autore del romanzo Diphylleia. Solo l’amore può distruggere l’omofobia (Vasto, Caravaggio Editore, 2019).

⁴ Darryl B. Hill, “Genderism, Transphobia, and Gender Bashing: A Framework for Interpreting Anti-Transgender Violence” in Barbara C. Wallace, Robert T. Carter (a cura di), Understanding and Dealing with Violence: A Multicultural Approach, Los Angeles, SAGE Publications, Inc., 2003, pp. 113-137.

⁵ Camilla Catalano, “Oggi parliamo di passing con Ethan Caspani: che cos’è e perché è nocivo?”, in Cosmopolitan, 7 settembre 2021.

© 2022 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani

(continua in libreria…)

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